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Il Medioriente di Calabria

SAN GIORGIO ALBANESE Ma come puoi lasciare una delle città più belle del mondo – Parigi – per venire a fare il contadino a San Giorgio Albanese? Puoi, se la mattina ti svegli in un paradiso verde a…

Pubblicato il: 18/08/2011 – 11:01
Il Medioriente di Calabria

SAN GIORGIO ALBANESE Ma come puoi lasciare una delle città più belle del mondo – Parigi – per venire a fare il contadino a San Giorgio Albanese? Puoi, se la mattina ti svegli in un paradiso verde assolato e profumato di agrumi, e soprattutto se il paradiso è a qualche chilometro dal tuo paese nativo abbandonato mezzo secolo prima. Piero Sammarro a sedici anni è partito da Acri con i pennelli in tasca, perché qualche anno prima non aveva potuto seguire a Firenze il suo maestro Iusi, acrese, decoratore di chiese: adesso che era cresciuto, voleva provare a fare il pittore in Francia. A Parigi però si fermò, dal fratello maggiore che faceva lì il musicista, solo per curiosità o poco più.
Poi una sera del Natale 1962 un suo amico, fiorentino – corsi e ricorsi –, lo invita al ristorante della signora Graziella, siciliana. «Mi ha chiesto di suonare. Da quel giorno sono rimasto lì». Un impresario non molla più Piero – che nel frattempo è diventato Pierre – e il giovane aspirante pittore acrese si afferma come musicista italiano a Parigi. Appena può scappa in campagna, a cento chilometri dalla metropoli suadente ma caotica, in una casa che lo fa sentire un po’ meno lontano dalla aspra Calabria. Poi un giorno cambia di nuovo tutto nella vita di Pierre. Che ridiventa Piero.
Si chiama Bruna: bella ma diffidente, è uno stupendo esemplare di Aïdi del Marocco, cane da guardia di una razza millenaria specializzata nella caccia di serpenti velenosi, molto simile al lupo della Sila (altra coincidenza), che Pierre s’è portato dietro dalla Francia e sta creando una colonia in Calabria: oggi partorisce, e per farlo ha scelto l’ombra di uno dei 1.300 ulivi – molti di questi sono secolari, qualcuno millenario – che popolano i 20 ettari acquistati nel 1982 e divenuti dimora fissa di Sammarro nel 1998. È a inizio anni 90, invece, che vengono piantati i primi pompelmi: un torrente che scorre lì vicino con tanto di cascatelle fa la fortuna del luogo, il clima e l’esposizione fanno il resto a pochi chilometri dalla Piana felix delle clementine. «Ancora oggi mi prendono per pazzo – racconta – ma io ho voluto sperimentare. E il tempo mi ha dato ragione». Niente finanziamenti: anche il frantoio settecentesco dei Falcone, parenti dei Sanseverino, vuole rimetterlo a posto «da solo, faccio tutto da solo». È lì davanti che coltiva con procedure biologiche e senza alcun trattamento chimico il pompelmo rosso (Star rubi, letteralmente stella di colore rubino, tagliarlo in due è rendersi conto della perfezione della Natura), infinitamente più raro, più dolce e pregiato dei fratelli giallo e rosa, e di recente chi lo «prendeva per pazzo» ha pure tentato di copiarlo ma tanto «a valle lo stesso frutto cresce peggio: con la coltivazione intensiva, il pompelmo diventa più grande e ha una buccia più spessa che lo rende meno gustoso. Se avessi voluto fare anch’io una coltura intensiva avrei comprato in pianura. È qui che c’è l’equilibrio ideale»: è un fazzoletto di terra (in totale un ettaro e mezzo, che abbraccia anche una piccola coltivazione di lime, il limone verde usato per bibite e cocktail) nel quale s’è creato lo stesso microclima mediorientale, quello ad esempio che c’è in Israele, maestra anche nella tecnica di irrigazione a goccia: tubetti flessibili che corrono attorno ai tronchi abbracciandoli e rilasciando circa 8 litri d’acqua all’ora.
Trecento piante di pompelmo producono 200 quintali l’anno (80 quintali, invece, la produzione di lime, per ora), ogni frutto pesa in media 400 grammi, neanche uno rimane in Calabria ma – se può consolarci – nemmeno nel resto d’Italia: l’associazione che riunisce le aziende del luogo che producono biologico esporta questi pompelmi e questi lime soprattutto nel nord Europa. «Ho conosciuto il pompelmo a Parigi – così Piero racconta gli anni in cui era Pierre – e me ne sono innamorato. È ricco di licopene, un antiossidante. Perché non coltivarlo nella mia Calabria, baciata dal clima favorevole?». Il frutto non cade dall’albero dunque garantisce una raccolta praticamente continua: ora che è estate, su una pianta di queste si possono vedere – uno accanto all’altro – i frutti appena nati accanto a quelli maturati lo scorso novembre: «E anzi, i più vecchi sono ancora più dolci e succosi, gua’!». Oggi il pompelmo rosso è così pregiato che non si compra al chilo: si compra solo singolarmente, come il mango o l’avocado, e costa 2 euro a frutto.
Variano da 20 a 30, invece, i quintali di olive che vengono raccolti ogni anno nella tenuta di Sammarro. Se per i pompelmi la raccolta è più agevole, per le olive tutto si complica: per mantenere gli alberi basta una persona, ma per la potatura, la raccolta e il trasporto servirebbe una squadra. Sempre più difficile trovare gente disposta a questo, tanto che spesso Pierre ospita amici francesi per farsi aiutare nell’arduo compito (in realtà qualche volta ha anche ricevuto visite meno piacevoli – «da questo punto di vista la Calabria è una terra difficile», sospira – ma questo è un altro discorso, come il terrore degli incendi dolosi e la paura di vedersi avvelenare i cani).
La cultivar (varietà) del posto è l’oliva “dolce di Rossano” Dop, una tra le più antiche e pregiate d’Italia: il terreno collinare e argilloso e il rigoroso metodo di produzione (le olive vengono raccolte a mano e immediatamente frantumate, con molitura e semplice premitura a freddo) rendono quest’olio di color giallo-oro assolutamente privo di acidità, dal gusto mandorlato. «Ma non riesco a raccogliere tutte le olive», dice Sammarro mentre mostra gli alberi coi quali sembra avere un rapporto sentimentale: «Se vuoi abbracciare questo tronco devi farlo con altre quattro persone», lì ci sono «i due amanti», poco più in là «i danzatori di Matisse» e poi anche «questi due che si sono separati», evidentemente anche gli ulivi divorziano…
Pierre si muove sul Land Rover, vecchio come quella bottiglia di vino nella quale è stato messo un mazzo di violette. Un volto femminile scolpito in un tronco secolare osserva, affacciato alla finestra.
Ma qui non si vedono solo limoni, pompelmi e ulivi: la macchia mediterranea è fatta anche di mirto, citronella, euforbia ed erica. Il profumo inebria. Un coq francese fa il galletto sul prato inglese tra le gallinelle locali, ci si disseta con succo di anguria più pompelmo e arancia tardiva («qui la raccogli pure in estate»), a pranzo si mangia gazpacho e carne cruda di Longobardi, si innaffia tutto con Bordeaux e champagne ascoltando jazz, con Bruna e con gli altri cani si parla in francese e con Sting che esce dal lettore cd si può fare un duetto pizzicando uno strumento a corda del calabrese De Bonis, posato nel soppalco accanto al violoncello di quel famoso liutaio francese e ad altri venti pezzi che hanno allietato centinaia di serate lungo la Senna. Anche San Giorgio Albanese può essere un giacimento multiculturale. «Ecco perché ho lasciato Parigi».

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