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Processo Meta, regge in Appello l`impianto accusatorio

REGGIO CALABRIA Una sostanziale conferma dell’impianto accusatorio, accompagnata però da generosi sconti di pena. Così i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria hanno messo la parola fine al…

Pubblicato il: 11/06/2013 – 7:38
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Processo Meta, regge in Appello l`impianto accusatorio

REGGIO CALABRIA Una sostanziale conferma dell’impianto accusatorio, accompagnata però da generosi sconti di pena. Così i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria hanno messo la parola fine al secondo grado del processo Meta con rito abbreviato.
Fatta eccezione per Rocco Zito, condannato in primo grado a 13 anni e 4 mesi e assolto in appello, e Francesco Rodà, che per i giudici di primo grado avrebbe dovuto scontare nove anni di carcere ma è stato assolto in seconda istanza, nessuno degli imputati si salva da una condanna.
Beneficiano di una sostanziale riduzione di pena Pasquale Buda, condannato in primo grado a 15 anni e a 10 anni e due mesi in secondo, e Domenico Barbieri, in primo grado raggiunto da una condanna a dieci anni e quattro mesi, quasi dimezzata a 5 e 10 mesi in secondo. Allo stesso modo, si riduce quasi della metà la pena inflitta a Santo Le Pera, condannato in appello a scontare sette anni a fronte dei  13 anni e 8 mesi comminati in prima istanza, e a Vitaliano Grillo Brancati, condannato in appello a 5 anni e sei mesi, a fronte dei 9 anni e 8 mesi rimediati in primo grado.
Dovrà scontare invece sei anni di carcere, due in meno rispetto alla pena comminata in primo grado, Demetrio Condello, mentre a sette anni di detenzione sono stati condannati Francesco Priore e Domenico Cambareri, entrambi raggiunti in primo grado da una condanna a nove anni.  Va peggio a Giandomenico Condello, che beneficia di “solo” un anno di riduzione di pena, rimediando una condanna in appello a 8 anni, a fronte dei 9 rimediati in prima istanza.
La Corte ha condannato a 4 anni, più una multa di 700 euro,  a fronte dei 5 rimediati in primo grado, anche Giuseppe Greco – che solo da pochi mesi ha iniziato un percorso di collaborazione. Ma riduzioni sono arrivate anche per le condanne minori: dovranno scontare solo 1 anno e 8 mesi  a fronte dei due anni e quattro mesi rimediati in primo grado Francesco Condello e Domenico Francesco Condello, mentre è solo di un anno e quattro mesi la pena inflitta a Giovanni Canale, in precedenza condannato a due anni. Ma una nuova condanna arriva anche per “il Barone” Salvatore Mazzitelli, condannato a un anno e otto mesi a fronte dei tre rimediati in primo grado. Ma è soprattutto sul fronte pecuniario che il noto imprenditore viene colpito: la confisca dei beni – tra cui in noto stabilimento balneare Calajunco è stata confermata anche in secondo grado. Medesimo provvedimento arriva all’imprenditore Domenico Barbieri, colpito anche da una condanna a 5 anni e dieci mesi.
Nonostante i generosi sconti di pena, la sentenza è una conferma dell’impianto accusatorio costruito dal pm Giuseppe Lombardo, che con la sua inchiesta ha definito con sempre maggiore dettaglio il mosaico dei nuovi equilibri criminali scaturiti dalla seconda guerra di `ndrangheta. Un mosaico complesso, profondamente mutato rispetto a quello molecolare di epoca precedente al conflitto, ma con esso in linea di continuità. Un mosaico in cui le `ndrine continuano a darsi appuntamento a Polsi, ma a governare è un direttorio formato dalle principali famiglie reggine – Tegano, De Stefano, Condello, Libri – che si è affermato all`indomani della seconda guerra e da allora ha stabilito le proprie leggi, imparando a gestire in regime di concordia tanto gli affari come i contrasti interni che rischiavano di far saltare i delicatissimi equilibri, raggiunti al prezzo di un conflitto da oltre settecento morti ammazzati.
È successo – hanno rivelato i pentiti, sia in fase di indagine, sia in dibattimento – quando Peppe De Stefano, ha voluto rivendicare per sé il ruolo che era stato del padre, quel don Paolino che della potenza dei De Stefano come holding criminale è stato il demiurgo. Sarà lui, ha rivelato più di un collaboratore, a prendere in mano le redini della famiglia con l`appoggio dell`avvocato Giorgio. Ma soprattutto con il benestare di Pasquale Condello, quel Supremo che si interpone nel conflitto fra i De Stefano e i Tegano con il fondamentale ruolo di mediatore. Uno scenario inimmaginabile solo una decina di anni prima, quando i Condello da una parte e i De Stefano- Tegano dall`altra si erano mutuamente massacrati, ma che è in assoluta continuità con il regime che quel conflitto precede. Un regime in cui è all`ombra di don Paolino che nasce e cresce l`astro criminale di quello che diventerà il Supremo. Lo stesso personaggio che vent`anni dopo – ipotizza l`inchiesta Meta – restituisce al figlio la carica e il ruolo che trent`anni prima erano stati del padre.
Sono questi i principali protagonisti di quel direttorio – dice l’inchiesta Meta – che dalla fine della seconda guerra di `ndrangheta si è dimostrato in grado di gestire la vita economica, politica e sociale della città. Una struttura che, in linea di continuità con quei patti scellerati fra `ndrine, massoneria, servizi e pezzi di Stato svelati dall’inchiesta Olimpia, nei decenni successivi è diventata altro. O meglio, parte di altro. Un ‘altro’ non ancora definito in sede giudiziaria ma che l’inchiesta Sistemi Criminali dell’attuale procuratore capo di Palermo, Roberto Scarpinato ha abbozzato e che l’indagine Meta si candida a iniziare a definire.
Una struttura che va ben oltre la Calabria, ben oltre le ‘ndrine, radicata e sviluppata nel tempo su tutto il territorio nazionale, così solida da non necessitare neanche di incontri o riunioni periodiche, ma capace di riattivarsi immediatamente – anche a distanza di decenni – su preciso e inconfondibile input. Una struttura la cui esistenza è stata confermata non solo dalle parole di collaboratori – un tempo uomini di peso del sistema criminale tanto in Calabria come in Sicilia o Lombardia – che da tale struttura si sono spesso visti sovrastare senza riuscire a comprenderla fino in fondo, come l’ex braccio destro dei fratelli De Stefano, Nino Fiume, il collaboratore lombardo Antonio Belnome o il siciliano Vincenzo Sinacori, reggente del mandamento di Mazara del Vallo. Dichiarazioni che si incrociano e trovano conferma nelle rivelazioni fatte in tempi diversi da altri pentiti, come Pasquale Nucera, Filippo Barreca e ancora una volta un siciliano, Gioacchino Pennino, o nelle conversazioni intercettate del boss Luni Mancuso.
E tutti parlavano e parlano di un livello ancora invisibile, ma determinante nel guidare le scelte strategiche non solo locali o regionali, puntuale e preciso nel rispondere quando si sente minacciato, dotato di occhi e orecchie altrettanto impercepibili, ma sempre all’erta quando ipotesi investigative si dimostrano di così ampio respiro da trascendere la dimensione di chi si diletta con cariche e santini, arrivando a toccare i centri decisionali dei nuovi sistemi criminali. E forse, almeno in parte, dello Stato stesso. (0030)

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