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"Saggezza", la Procura chiude le indagini

Chiude il cerchio la Procura di Reggio sull’inchiesta “Saggezza”, l’indagine che nel novembre scorso non solo ha svelato l’esistenza di una nuova struttura organizzativa utilizzata dalle ‘ndrine del…

Pubblicato il: 10/09/2013 – 21:54
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"Saggezza", la Procura chiude le indagini

Chiude il cerchio la Procura di Reggio sull’inchiesta “Saggezza”, l’indagine che nel novembre scorso non solo ha svelato l’esistenza di una nuova struttura organizzativa utilizzata dalle ‘ndrine del mandamento jonico, ma soprattutto i contatti con i massimi vertici della massoneria. Oltre ai 39 soggetti colpiti nell’autunno scorso dall’ordinanza di custodia cautelare, è stato notificato l’avviso di conclusione indagini ad altri sedici soggetti, tutti accusati a vario titolo associazione mafiosa, estorsione, porto abusivo d`armi, usura, illecita concorrenza per il condizionamento di appalti pubblici, minaccia, esercizio abusivo del credito, truffa, furto di inerti e intestazione fittizia di beni. Al centro della monumentale indagine – agli atti ci sono oltre 60 faldoni di informative, dichiarazioni, acquisizioni e altro materiale – c’è l’attività della Corona, la struttura per anni in grado di gestire i conflitti e spartire gli affari fra i locali di Antonimina, Ardore, Canolo, Ciminà e Cirella di Platì, rapportandosi direttamente con boss e famiglie di peso della jonica, come quali i Commisso di Siderno, i Cordl di Locri, i Pelle di San Luca, gli Aquino di Marina di Gioiosa Jonica, i Vallelunga,di Serra San Bruno, i Barbaro di Platì, gli Ietto di Natile di Careri, i Primerano di Bovalino.

LA CORONA Una struttura importante, in grado tanto con la massoneria, come la politica. «La massoneria – si legge nell’ordinanza dell’epoca – era vista dagli indagati come un trampolino di lancio, il modo più semplice ed ovvio per entrare in contatto con i vertici della società italiana, con il subdolo scopo di ottenerne vantaggi economici e personali, facilitare le loro condotte illecite ed accrescere il dominio sul territorio». E  quanto meno nel proprio territorio, la Corona e i suoi uomini di vertice non avevano difficoltà a farlo. Al contrario, la “capacità di entrare in contatto con ambienti istituzionali” era una delle caratteristiche principali e dei compiti peculiari della struttura. A guidarla, il boss Vincenzo Melia, individuo dalla “carriera criminale” non di poco conto, per gli inquirenti in possesso delle doti di ndrangheta almeno fin dal 1962 e dall’autorità indiscussa,  dunque scelto per dirigere la struttura,  “un`entità superiore ai locali  – spiegano i magistrati – e collegata a quello che si potrebbe individuare come il “terzo livello”, cioè con gli ambienti della massoneria e della politica». Ma a Melia spettava anche il compito di curare i rapporti con le altri articolazioni dell`associazione, che estendeva i propri tentacoli anche all’estero, fino in Australia e negli Stati Uniti. Mondi lontani, ma che mantenevano un rapporto ferreo con i cinque centri della Locride, grazie a personaggi come Luigi Varacalli, anziano uomo d’onore, considerato l’anello di congiunzione con l’articolazione australiana del sodalizio, o la famiglia Gambino, radicata in Connecticut, negli Stati Uniti. Ad affiancarlo, i due “capi consiglieri”, Nicola Romano e Nicola Nesci, considerato dagli inquirenti anche  “capo locale” di Ciminà e legato anche da vincoli di parentela alla cosca Spagnolo, coinvolta qualche anno fa nella maxi-inchiesta antidroga Stupor mundi. In posizione subordinata rispetto ai primi tre, ma comunque membri a pieno titolo della Corona erano anche Giuseppe Varacalli, Giuseppe Raso, capolocale di Canolo, e Giuseppe Fabiano, tutti “consiglieri” con fondamentali compiti tanto strategici come operativi.

POLITICA ED ECONOMIA SOTTO IL TALLONE DEI CLAN E sotto il tallone della struttura che rendeva unica cosa i cinque locali, passava di tutto, dagli appalti alle elezioni. Dai lavori edili al taglio dei boschi, passando per gli appalti pubblici e l’esercizio abusivo del credito, fino all`elezione del presidente della Comunità montana “Aspromonte Orientale” – quel Bruno Bova tratto in arresto a novembre e oggi raggiunto da una notifica di conclusione indagini –  gli uomini della Corona controllavano tutto ed erano in grado di muoversi su tutti i piani. A rivelare in maniera plastica il potere della nuova struttura è proprio la corsa di Bova, all’epoca vicesindaco di Ardore, alla presidenza della Comunità montana. Un incarico a cui  il politico sembra tenere molto, tanto da arrivare a bussare fino alla porta dell’allora senatore Pietro Fuda «con cui discute in diverse occasioni in merito all`evoluzione della sua candidatura a presidente della Comunità montana» e dall`allora sottosegretario al ministero delle Infrastrutture, Luigi Meduri, «al quale chiedeva aiuto per sostenerlo nell`opera di convincimento degli amministratori locali chiamati a scegliere il presidente della Comunità montana», senza dimenticare i sindaci del comprensorio. Ma solo quando mette la sua candidatura al servizio dei clan, Bruno Bova inizia a sentirsi sicuro. E per i clan «favorire un affiliato al “locale” di Ardore affinché raggiungesse una posizione direttiva piuttosto importante nell`economia del territorio, alla guida di un ente periferico in grado di gestire denaro pubblico e quindi bandire gare d`appalto, interloquire con gli apparati provinciali e regionali e condizionare, mediante le alleanze politiche e la spartizione delle varie cariche al suo interno, le scelte di una parte dell`elettorato, era un`occasione da non perdere, soprattutto per quella `ndrangheta inserita maggiormente nel mondo dell`imprenditoria, di cui facevano parte gli affiliati alla “Sacra Corona”».
Ma anche nel cuore dell’amministrazione di Serra San Bruno c’era un uomo dei clan. Si tratta dell’ex assessore Bruno Zaffino, campione del Pdl con 224 preferenze, defenestrato dal sindaco prima di essere coinvolto nell’indagine Saggezza, con l’accusa di violenza privata aggravata dalle modalità mafiose. Per gli inquirenti, l’assessore avrebbe minacciato un rappresentante di una ditta di Bari, operante nel settore della commercializzazione del legname, costringendolo a rinunciare ala vendita di 12.000 pali di castagno da 2 metri, in modo da favorire l`attività di Marcello Cirillo ritenuto vicino alla criminalità organizzata locale e in particolare al boss ucciso Damiano Vallelunga.

ALL`OMBRA DEI GREMBIULINI Ma è soprattutto sfruttando conoscenze e influenze dei fratelli massoni che gli uomini della Corona progettavano di imporre il proprio volere e il proprio raggio d’azione. Almeno sei dei personaggi arrestati nell’ambito dell’operazione Saggezza erano – scrive il gip – “ loggia massonica con sede in via Mazzini di Siderno, facente capo alla più grande loggia madre denominata Camea (Centro attività massoniche esoteriche accettate) il cui Gran Maestro risultava essere all`epoca dei fatti “omissis” (persona estranea all`indagine e non indagata), identificato dai fratelli massoni con l`appellativo di “Ripa 33”». Insieme a politici, imprenditori, professionisti iscritti alla loggia c’erano anche uomini di peso della Corona e del locale di Ardore. È il caso del “maestro di Corona e capoconsigliere” Nicola Nesci, che anche tra i grembiulini aveva fatto una discreta carriera: l`uomo – scrivono i magistrati – è “Maestro segreto di 31° grado”, nonché “Presidente della camera di 4° grado” ed è «legato a tre soggetti, che erano gli unici in grado di riferire sulla sua persona». Sono tre “fratelli” massoni, uno dei quali, Giuseppe Siciliano, finito agli arresti perché ritenuto un uomo del clan di Ardore.  Insieme a loro, affratellati ai notabili della zona, c’erano anche Giuseppe Varacalli, Rocco Mediati, Ferdinando Parlongo e Bruno Parlongo, accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni. Anche Giuseppe Varacalli non è un personaggio di poco conto nell’organigramma mafioso della zona. Ma per i “fratelli” riuniti all’ombra di squadra e compasso è solo un “cavaliere” dell’ordine massonico nato sull’isola di Malta, dove – stando a una conversazione intercettata – avrebbe ricevuto la sua investitura. L’inizio di un percorso che in seguito lo lo porterà alla loggia Zaleuco di Locri, ma che si interromperà bruscamente – si presume – nel 2008, quando Varacalli verrà accusato di aver favorito la latitanza del boss di San Luca, Antonio Pelle. Tutte circostanze che per gli inquirenti non fanno che confermare una tesi che la Dda porta avanti da tempo: «Il contatto con gli ambienti massonici costituisce un vero e proprio trampolino di lancio per gli affiliati al sodalizio mafioso, poiché li avvicina a quelle componenti della società italiana che costituiscono i veri centri decisionali in campo economico, politico e sociale». (0080)

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