Di recente il leader della Fiom ha organizzato uno sciopero “a rovescio”. Lavorare in un certo modo, anziché no. Intrigherà sapere che c’è un “fil rouge” che unisce l’iniziativa di Maurizio Landini con il movimento contadino del Mezzogiorno (‘43/’53). Ossia con “gli avvenimenti più rivoluzionari nella storia italiana di questo dopoguerra”. Lo sciopero “a rovescio”, infatti, l’ha ideato Paolo Cinanni negli anni ’40. La trilogia sulle lotte per le terre nel Mezzogiorno pubblicata dal Corriere della Calabria (“Nessuna paura del fucile. Giuditta Levato a cent’anni dalla nascita”, “Caro compagno: le lettere di Gullo per capire il Sud”) sarebbe monca, se non introducessimo una personalità dall’intelligenza vivida: Paolo Cinanni. Protagonista di quel decennio, nonché intellettuale tra i più autorevoli del suo tempo. Amico di Cesare Pavese, fu lui a pronunciare l’orazione funebre di Carlo Levi.
L’INCONTRO CON PAVESE E L’AVVICINAMENTO AL COMUNISMO
Calabrese di Gerace, emigrato in Piemonte, dirigente del Pci, impegnato sui temi dell’emigrazione, in prima fila nella lotta per le terre in Calabria dal ’43 al ’53: quando i “cafoni” penetrarono nella storia, sfidando a viso aperto e disarmati la prepotenza dei latifondisti. Al tempo dell’antipolitica, quando l’essere populisti e demagoghi è persino un vessillo da esibire alla pubblica opinione, riscoprire figure come quella di Cinanni costituisce anche un modo per provare a disintossicarsi dagli effetti venefici di una politica (e di un certo tipo di narrazione sul Sud che fa presa nei media e nell’editoria) spesso velleitaria ed inconcludente. Nato a Gerace il 25 gennaio 1916, Cinanni ha incarnato alla perfezione la figura del dirigente comunista, in quel “partito nuovo” protagonista della vita nazionale per quasi un cinquantennio. Al partito di Togliatti aveva aderito già nel 1940, a Torino, dove a 13 anni era emigrato con la famiglia. Da garzone in una vetreria a fattorino in un negozio di scarpe, il suo impatto con la grande metropoli non fu certo entusiasmante: tanta fatica per poche lire al giorno. Poi il brutto incidente. È il 1930, il 24 giugno. Di ritorno dal lavoro viene investito da un tram che gli spezza la gamba sinistra. Amputazione. Aveva appena compiuto 15 anni. Sono anni duri per Cinanni, costretto ad affrontare anche una grave forma di pleurite e a sopportare il peso della dipartita di due sorelle, entrambe uccise dalla tubercolosi. Ma il destino aveva riservato di più a quel ragazzo calabrese, cui non mancavano certo intraprendenza e desiderio di riscatto. Decisivo fu l’incontro con Cesare Pavese, intanto ritornato a Torino dopo il confino in Calabria.
AMICO DI GINZUBURG, CLANDESTINO E IN LOTTA PER LE TERRE
Tra i due nasce un sodalizio politico-intellettuale. Cambia tutto. Il ragazzino di bottega scopre il gusto della lettura ed inizia a frequentare gli ambienti antifascisti piemontesi, conosce personalità del calibro di Ludovico Geymonat e Leone Ginzburg, entra a far parte del Pci clandestino. Il suo ruolo nella Resistenza sarà importante. Dall’organizzazione delle brigate partigiane nel cuneese agli incarichi di direzione a Milano tra le fila del Fronte della Gioventù, guidato da Eugenio Curiel. Il 25 aprile lui è lì, nel capoluogo lombardo, partecipa all’insurrezione, occupa insieme ad altri compagni del Fronte la tipografia della Gazzetta dello Sport e stampa il primo giornale della Milano liberata, mentre per le strade ancora si spara. A guerra finita Cinanni entra nel Comitato Centrale del Pci, occupandosi di problemi legati al mondo contadino. Sono gli anni delle occupazioni delle terre e della riforma agraria, anni di dure lotte e di pesanti repressioni. E’ in questo contesto che Cinanni teorizza anche per la questione agraria la formula dello “sciopero a rovescio”. Se un operaio, per protestare, deve astenersi dal lavoro, un disoccupato sciopera lavorando. Nel caso dei contadini, calabresi e non solo, lo “sciopero alla rovescio” si attua marciando sulle terre incolte dei latifondi, picchettando i terreni per suggellarne la presa di possesso, iniziando al tempo stesso ad ararli ed a seminarli.La sua idea era che a quelle lotte non era seguito un mutamento reale del regime proprietario e delle condizioni di vita dei contadini, ma solo degli aggiustamenti funzionali, che servirono peraltro ai governi democristiani del tempo per consolidare ed estendere il proprio potere di condizionamento elettorale presso le larghe masse di contadini meridionali. Lo spiega bene Umberto Terracini, nella sua prefazione al libro di Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria (1943-1953): “Paolo Cinanni si persuase che, per assicurare alla riforma agraria un fondamento ineccepibile di diritto sollevando nel contempo l’Erario pubblico del peso schiacciante di ogni indennità di esproprio, bisognava innanzitutto e subito , grazie alla congiuntura politico sociale conseguita alla guerra, al rovesciamento della dittatura e alla incombente auspicata radicale trasformazione istituzionale, rievocare alla collettività contadine, l’immenso patrimonio fondiario che con la violenza e con l’imbroglio, erra stato loro sottratto. Ma la sua concezione, non trovò recepimento non dico nelle cerchie del potere ufficiale e costituito ma neanche presso le direzioni dei partiti asserentesi democratici e progressisti – il suo stesso compreso – e nei centri maggiori dell’organizzazione sindacale”.
AMENDOLA: «CINANNI? PUNTIGLIOSO E SUSCETTIBILE»
Per Cinanni le lotte contadine dovevano costituire il grimaldello per il raggiungimento di obiettivi più generali e, nello specifico, dovevano condurre ad una più organica riforma agraria per allargare la base lavorativa e produttiva della regione. Non fu così. Dopo i fatti di Melissa del 1949, il governo De Gasperi fu “costretto” a prendere in considerazione il problema della “riforma”, ma non andò in profondità nella lotta al latifondo e nella riparazione delle usurpazioni demaniali seguite all’eversione della feudalità. Né il Pci se la sentì di spingere più di tanto su quel versante. Quelli del “centro”, peraltro, erano refrattari a riconoscere una “specificità” meridionale nell’ambito delle lotte operaie e contadine, pensando primariamente ad una dimensione nazionale della lotta di classe. Questa diversità di veduta sul ruolo delle classi subalterne del Sud nella più ampia articolazione del conflitto di classe su scala nazionale, sarà alla base di non poche incomprensioni tra Cinanni e il partito. E con Amendola in particolare che di Cinanni dice: “Testardo e cocciuto nelle discussioni, puntiglioso e suscettibile, ha finito per questo suo difficile carattere, col non essere sempre apprezzato come meritava”. In verità il contrasto tra Amendola e Cinanni verteva sull’interpretazione da dare alle lotte dei contadini meridionali nell’ambito del movimento per l’occupazione delle terre. Diversamente dal dirigente napoletano, Cinanni pensava che quelle lotte dovessero avere una valenza “progettuale”, servire ad una più complessiva rinascita del Sud. Riteneva che la lotta per l’occupazione delle terre dovesse diventare funzionale ad un raccordo del Mezzogiorno col resto del paese, col nord industriale ed operaio, nell’ottica di una “effettiva unificazione delle due Italie”.
QUANDO FU ESPULSO O DAL COMITATO CENTRALE DEL PCI
Rimase isolato. Oggi sono in molti a riconoscere che tanti dei problemi del Sud e la stessa questione meridionale affondano le loro radici nell’irrisolta questione agraria. Non è stato facile, insomma,
il rapporto di Cinanni col Pci e a dimostrarlo sono alcuni episodi che lo videro protagonista anche negli anni successivi. Nel 1965 è chiamato a Roma da Giancarlo Pajetta, nel frattempo direttore di Rinascita. Cinanni si sarebbe aspettato un coinvolgimento nella redazione, ma dovette accontentarsi di un incarico di “promozione e diffusione” del giornale. L’anno dopo fu escluso dal comitato centrale ed il suo impegno si diresse verso le problematiche dell’ emigrazione. E proprio da membro dell’Ufficio emigrazione del Pci, insieme a Carlo Levi, diede vita nel 1967 alla Federazione lavoratori emigrati e famiglie (Fileff). Levi ne diventerà presidente e Cinanni vice. Questa esperienza comune li legherà in una “vivificante amicizia” fino alla morte dello scrittore (’75) di cui quest’anno ricorre il quarantennale.
EMIGRAZIONE: IL SUD SPOSTA LE SUE RICCHEZZE SENZA NIENTE IN CAMBIO
La Fileff ebbe una funzione fondamentale per tanti emigrati italiani, soprattutto oltreoceano. Come sempre accadde nella sua esperienza di dirigente politico, anche per la questione dell’esodo degli italiani all’estero, Cinanni non si limitò ad un ruolo organizzativo. Nel 1967 uscì per i tipi di Editori Riuniti il saggio Emigrazione e Imperialismo. La tesi di Cinanni sull’emigrazione è questa: si è trattato di un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Italia e dal Mezzogiorno ai paesi di destinazione, senza niente in cambio. Le stesse “rimesse” non incisero più di tanto sulle condizioni generali del Mezzogiorno. Pregnante è anche la sua analisi dell’esodo alla luce del divario tra Nord e Sud. Un’analisi che muove proprio dalla Calabria per dimostrare come lo Stato unitario non abbia mai operato per un superamento reale del gap tra Mezzogiorno e resto d’Italia. Sono i numeri a dimostralo. Infatti, se ragioniamo secondo uno schema ragionieristico del dare e avere, il quadro che viene fuori è indubbio. Cinanni: “Nella colonna delle entrate, vogliamo scrivere senz’altro i 120 milioni stanziati dalla legge speciale del 1906 (col supplemento dei 70 milioni ad essa destinati dalla legislazione ordinaria); vogliamo scrivere i 204 miliardi della legge speciale del 1955, più i 50 stanziati con la prima integrazione, e quanti altri potranno essere elargiti col provvedimento di proroga sino al 1980. Ma nella colonna delle uscite non possiamo non calcolare i due milioni di emigrati forniti dalla Calabria nel corso di un secolo: una ricchezza enorme, costituita da forze vive di lavoro, allevate e formate a proprie spese, e regalate alle altre regioni e paesi del mondo, perché producessero per loro nuova ricchezza. Abbiamo calcolato in 21,3 mila la media degli emigrati che hanno lasciato la regione in tutti i 90 anni in cui si è tenuto il conto: calcolando il costo di ciascuna forza di lavoro emigrata, secondo la media indicata dagli economisti, in sei milioni, noi avremo tutti gli anni, nella colonna delle uscite, l’enorme somma di 127.800.000.000 di lire, alla quale, per far quadrare il bilancio, dovrebbe corrispondere analoga cifra nella colonna delle entrate, con la doverosa detrazione di tutti gli spiccioli avuti sinora”.
IL MEZZOGIORNO, «INESISTENTE PROBLEMA IRRISOLTO»
A distanza di tanti anni, quelle pagine conservano un valore inestimabile ai fini della comprensione di quella che ancora oggi costituisce la “questione meridionale”. Cosa fallì in quel decennio di “lotte per le terre e la libertà”? Lo chiarisce l’economista Bruno Amoroso “La possibilità di un vero patto nazionale di lotta e solidarietà tra i contadini del Sud e gli operai del Nord, auspicato da Gramsci nella sua Questione meridionale. Un patto non mediato dagli intellettuali e dalle loro attenzioni per la borghesia del Nord ed i ceti dominanti del Sud, ma espressione diretta delle scelte di milioni di lavoratori”. Allo stesso modo quei dati offrono strumenti validi per smontare alcuni dei presupposti storico-economici di certe “lagnanze” del Nord. Se anziché di “legge speciale” parlassimo di fondi Fas, o di redistribuzione delle risorse fiscali, ad esempio, il quadro che ne verrebbe fuori sarebbe in linea con quello descritto da Cinanni. Prova ne è anche il diverso impatto che la recente crisi economico-finanziaria sta avendo sul Sud e sul Centronord, relativamente alla produzione netta ed ai livelli occupazionali. Negli anni Settanta Cinanni si dedica quasi completamente allo studio, alla ricerca, all’analisi dei fenomeni sociali e politici che già l’avevano visto interessato negli anni passati. Nel 1973 inizia a collaborare con l’Istituto di Filosofia dell’Università di Urbino, subito dopo dà alle stampe un nuovo saggio, “Emigrazione e unità operaia”. Gira molto in quegli anni, anche all’estero: l’Università di Berlino gli conferirà il prestigioso incarico di compilare alcune voci dell’Enciclopedia del marxismo. Cinanni muore nel 1988, a San Giovanni in Fiore. Intorno alla metà degli anni Ottanta un gruppo di giovani sangiovannesi gli chiede di assumere la direzione di un foglio ciclostilato, che, per la legge sulla stampa, senza un direttore responsabile non poteva essere pubblicato. Su ogni numero del periodico era riportata la seguente frase: “Assumo la responsabilità richiesta dalla legge per la pubblicazione di questo giornale, per dare ai giovani un mezzo di libera espressione, nella convinzione che ciò servirà non solo alla loro propria formazione responsabile, ma alla causa della libertà e della verità”. Il Rapporto Censis (2013) descrive il ritardo di sviluppo di questa parte del Paese e lo riassume con un ossimoro: “un inesistente problema irrisolto”. Irrisolto, perché i nodi strutturali del Mezzogiorno, non sono stati mai affrontati. E quando c’è stata l’occasione di tagliare le rendite, archiviare il latifondo e incidere in una degradante condizione di miseria generale gravata da ricchezze parassitarie, “si sono considerate – scrive Oscar Greco in un volume intitolato L’economia senza gioia – le condizioni economiche e socio-culturali del Mezzogiorno una ‘diversità intollerabile’ per una nazione che si prefiggeva di rinascere attraverso un processo di industrializzazione”. Quella volta che le masse contadine alzarono la testa pagando prezzi altissimi, prefigurando un modello di crescita coerente con i valori della civiltà contadina, le classi dirigenti, anziché sostenerle, avviarono ciò che Pasolini definì “un genocidio culturale”. Per il Sud: un’economia di dipendenza, “che ha aumentato i livelli di consumo della popolazione ma non l’autonoma capacità produttiva”. Con una battuta: una modernizzazione sbagliata. Che ha dissolto l’agricoltura e “trapiantato cattedrali nel deserto di cui restano oggi visibili solo le macerie”.
*Capo ufficio stampa del Consiglio regionale
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