La questione “Calabria etica”, venuta alla ribalta a seguito delle indagini intraprese dalla Procura di Catanzaro, pone una questione di metodo al modo di governare la Calabria. Scopre le carte (si fa per dire!) sull’uso strumentale delle società in house della Regione in senso strettamente clientelare. L’occasione per fare del male all’economia pubblica, sottraendo risorse alle attività necessarie e fondamentali, ampiamente trascurate, e a tanta povera gente, spesso presa all’amo dell’illusione del sedicente posto fisso, specie nella immediatezza di appuntamenti elettorali. Un problema serio per i destinatari del miraggio occupazionale – che non sanno che pesci prendere, lasciati come sono sulla strada – perfettamente coincidente con il peggiore modo di fare politica, diretta ovvero per interposti soggetti, individuati intuitu personae (!).
Questo è quanto trapela dalla cronaca e dalla lettura che la stessa fa degli atti. Saranno i giudici a decidere sulle responsabilità emerse ed emergenti e a conclamare chi sono eventualmente gli imbroglioni e gli imbrogliati. Poi sarà compito della politica danneggiata darsi da fare per recuperare il maltolto con il contributo attivo anche della Corte dei conti, chiamata a decidere su quelle che appaiono evidenti responsabilità contabili.
In relazione all’accaduto meraviglia tuttavia una cosa, della quale nessuno parla. Il riferimento va alla rete dei controlli interni ed esterni della Regione e alla sua burocrazia, ordinariamente impegnata nella elaborazione dei bilanci e nella ordinaria tutela dei conti. Non si comprendono, infatti, così come del resto accaduto nel sistema sanitario regionale che scopre solo oggi ciò che era noto da sempre, specie alle latitudini reggine, le modalità di esercizio del loro ruolo istituzionale, attesa la gravità del risultato.
Più precisamente, le società cosiddette partecipate costituiscono un tutt’uno con gli enti di riferimento quanto ai risultati relazionati alla loro mission costitutiva e quanto a quelli prodotti sotto il profilo economico-patrimoniale e finanziario.
Quanto ai primi, sono i fatti a certificare il flop, meglio il colposo fallimento delle iniziative. Invero, pare non ravvisarsi all’orizzonte alcun esito positivo a fronte di un inutile spargimento di tanto denaro pubblico, più precisamente di qualche milione di euro.
Quanto ai secondi meravigliano due cose: la disattenzione della Regione nel non vigilare su ciò che accadeva nella quotidianità, così come d’altronde avveniva verso altre analoghe iniziative; la quasi inerzia dei controlli relativi e la esagerata “neutralità” sull’accaduto di chi aveva la responsabilità di verificarli routinariamente e di provvedere alla formazione del bilancio consolidato della Regione.
Tutti sappiamo quanto siano importanti le anzidette attività e quanto peso debba esser dato al principio contabile che concerne il bilancio consolidato. Quel documento obbligatorio redatto a consuntivo di ciascun esercizio, rappresentativo della situazione economica, patrimoniale e finanziaria, nel caso di specie, della Regione, ivi comprese le società dalla medesima partecipate non irrilevanti. Un concetto, quest’ultimo, sul quale tanto si è giocato (a far male con i conti pubblici) nei confronti del quale la Sezione di controllo per la Regione siciliana della Corte dei conti ha espresso finalmente un importante e esaustivo parere (n. 60/2014) ad integrazione del dPCM del 28 dicembre 2011.
Devono quindi, destare quantomeno meraviglia le innaturali prese di distanze di chi sarebbe dovuto stare più attento su come andavano le cose e a denunciare ogni anomalia della quale, pare, si fosse pure accorto.
Un monito alla Regione di oggi, sulla quale in tanti nutrono legittime speranze: stiamo attenti alla gestione del bilancio. Che si eviti di nascondere ciò che, invece, dovrebbe essere reso palese ad opera di chi intende cambiare realmente le cose. Non si può essere collaborativi con i corresponsabili di ieri. A buoni intenditori…
*Docente Unical
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