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Il presidio degli invisibili dello spettacolo

REGGIO CALABRIA Sono arrivati da Roma, Foggia, Reggio Calabria perché Matteo era uno di loro. Un amico, un collega, uno che ogni volta che si presenta al lavoro, sa di rischiare la vita. Rigger, facc…

Pubblicato il: 21/01/2016 – 20:22
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Il presidio degli invisibili dello spettacolo

REGGIO CALABRIA Sono arrivati da Roma, Foggia, Reggio Calabria perché Matteo era uno di loro. Un amico, un collega, uno che ogni volta che si presenta al lavoro, sa di rischiare la vita. Rigger, facchini, operai, tecnici delle luci, del video o dell’audio, senza di loro nessuno degli spettacoli o degli eventi che animano piazze e palazzetti potrebbe avere luogo, ma nella macchina dello showbusiness sono l’ingranaggio meno tutelato. «Quando ti chiamano per montare un palco sai quando ti devi presentare, ma non sai quando finirai. A meno che tu non sia in tournée, ti avvertono il giorno prima e tu scopri il giorno stesso in che consista il lavoro. E spesso chi materialmente monta un palco non sa neanche quale sia il lavoro complessivo, ma solo la parte che gli viene assegnata.  Questo – spiega Davide – palesa la mentalità di chi pensa che i lavoratori siano solamente braccia e gambe».  Organizzati in cooperative che spesso non sono che aziende mascherate, costretti – di fatto – a lavorare a chiamata e per salari irrisori, solo da poco più di un anno inquadrati con un contratto ad hoc, per di più spesso interpretato in maniera elastica dalle produzioni, obbligati a corsi sulla sicurezza che il più delle volte non sono che mere formalità o business, sono loro a rischiare la vita perché lo spettacolo di un artista dal cachet a cinque o sei zeri  vada avanti. Come Matteo Armellini, schiacciato da un palco crollato senza dargli il tempo di mettersi in salvo, come i tanti ragazzi – l’ultimo episodio risale a qualche giorno fa – feriti o uccisi da strutture che crollano come castelli di carte. 

IMPROVVISAZIONE SISTEMATICA Strutture immaginate per uno spazio standard e solo nei giorni che precedono l’evento adattate alle reali condizioni in cui il palco sarà montato. «Il palco viene pensato e montato nel luogo della data zero, mettiamo uno stadio, ma alla tappa successiva sei in un palazzetto, però il progetto non sempre viene modificato, è sempre lo stesso – dice Davide, che mentre parla si torce le mani che mostrano il lavoro di chi ha montato centinaia di palchi –  È un copia- incolla, legittimato dalla compilazione di moduli per la sicurezza in modo superficiale. Nella parte di preparazione degli eventi – lo vedo regolarmente – soprattutto da parte della produzione c’è troppa leggerezza nell’affrontare le problematiche relative al posto in cui andrai a montare, che vengono delegate ai lavoratori. Noi operai alla fine risolviamo sempre i problemi. Ma se magari il pavimento non è in grado di sostenere la struttura, il palco lo puoi anche montare perfettamente, ma dopo..». Dopo, magari, succede quello che è successo a Reggio. Davide, come altri amici e colleghi di Matteo, si sono fatti un’idea. «L’impressione che abbiamo avuto noi è che ci siano stati problemi sia a livello di progettazione – praticamente non sono state messe delle piastre d’acciaio sotto che nel progetto erano previste- sia della struttura che doveva ospitare il concerto». 

«LO FACCIO PER MATTEO» Paola, la madre di Matteo sapeva poco o nulla dei dettagli del lavoro del figlio, non aveva coscienza specifica di quanto fosse pericoloso «quando lui andava a lavorare, ero preoccupata – dice –  come ogni genitore che sa il figlio lontano da casa. Cercavo di gestire la paura, come adesso che sono rimasta sola,  cerco di gestire il dolore». Quel mondo però ha imparato a conoscerlo dopo la telefonata che l’ha informata che suo figlio – l’unico figlio – era stato travolto e schiacciato dalla struttura che stava montando grazie alla comunità di colleghi e amici di Matteo che le si è stretta attorno. «È un lavoro a costante rischio, ma non viene mai considerato perché si dice “è stato sfortunato, è colpa della cattiva sorte”. Ma non è così. Si possono evitare». Per questo Paola ha iniziato la sua battaglia. Perché quelle responsabilità siano riconosciute, perché il figlio abbia giustizia ma non solo. «Lo faccio anche per tutti i morti sul lavoro. Trovo scandaloso che un uomo o una donna debba morire lavorando». O peggio che la cosa possa essere liquidata con un risarcimento monetario, come è stato proposto a lei non più tardi di qualche mese fa. «È un’offerta che io ho vissuto molto male e ho rifiutato, di conseguenza sono qua. Sono quattro anni che tutti i mesi vengo qua. E non ho altre risorse che la mia presenza per ricordare in quell’aula la figura di Matteo. Spero, come ho sempre sperato, che sia fatta giustizia. Ma ho anche paura perché il percorso della giustizia è lento». Un incubo che rischia di avverarsi.  

a. c.

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