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Potevamo "amare dolci cose"

REGGIO CALABRIA «Chiudiamo in bellezza. Abbiamo scelto di chiudere con una sorta di esperimento; con una novità assoluta, non soltanto perché lo spettacolo messo in scena è un testo nuovissimo, ma …

Pubblicato il: 21/03/2016 – 11:22
Potevamo "amare dolci cose"

REGGIO CALABRIA «Chiudiamo in bellezza. Abbiamo scelto di chiudere con una sorta di esperimento; con una novità assoluta, non soltanto perché lo spettacolo messo in scena è un testo nuovissimo, ma perché dopo tanti anni un gruppo di allievi si è autogestito completamente e ha messo su quello che vedrete voi stasera». Gaetano Tramontata introduce così lo spettacolo che ieri sera – e con un debutto di sabato – ha chiuso la rassegna teatrale “La casa dei racconti 2016” di SpazioTeatro a Reggio Calabria. Le premesse c’erano tutte, ma le aspettative sono state ampiamente disattese. Sì, perché lo spettacolo “Amare dolci cose” – scritto da Emanuele Modafferi (che ne è anche il regista), interpretato da Andrea Foti e Vanessa Schiavone (allievi del “Laboratorio dell’Attore” di SpazioTeatro) e una collaborazione all’allestimento di Valentina Alfarano – non è stato un tentativo riuscito, a partire dal testo. L’idea di base – stando alla didascalia della scheda tecnica – era quella di mostrare la vita di due attori che nella vita sono anche una coppia. «Una coppia di amici, di amanti ammaccati o stanchi, con sogni insistenti e desideri da realizzare insieme», si legge.
Ma per affrontare il tutto si è corsi dietro a una ricercatezza filosofica forse troppo ostentata, in cui le disquisizioni tra i due sfociavano in digressioni che non creavano l’hic et nunc necessario, ma confondevano – piuttosto – su quanto si volesse realmente mostrare. Troppi salti temporali tra una scena e l’altra che nell’azione non venivano giustificati, come quella del campeggio in cui l’attrice si alza e “ascende al cielo” sotto a un fascio di luce e un inserto musicale. Nella stessa, i troppo bui che determinano la fase sonno-veglia affossano la continuità temporale (stessa sorte toccherà alla scena del nascondino giocato a un buio che appariva eterno). Sfruttare il fondo della scena come letto/tenda da campeggio, rendeva i corpi disarmonici e contratti; le battute – in alcuni casi citazioni di trasmissioni televisive o film cult – erano a tratti sgradevoli («Neanche se scorreggerò per riscaldare l’ambiente?»). Non era chiaro il momento in cui i due attori entravano in altri personaggi, se non perché espressamente detto. Reiterate passeggiate su e giù sulla scena; “lotte” al rallenti causate dalla «telecomandite»; danze che richiamano il Tai Chi; i dialoghi, le azioni, le musiche, i cambi scena, la scenografia (l’arancia appesa alla nuvola nel finale e la stuoia presente in scena dall’inizio della rappresentazione): elementi legati tra loro forzando un po’ troppo la mano. Mancava una vera drammaturgia: ecco la vera falla. Perché in teatro, perché un’opera funzioni, è il testo che crea le giuste relazioni affinché gli elementi che compongono lo spettacolo agiscano tra loro. «Il messaggio, se vogliamo considerare il titolo è anche quello dell’accettazione, delle amarezze nella vita oltre che nelle dolcezze – spiega Emanuele Modafferi –.
Un’idea che la felicità si possa raggiungere da questo, anche includendo l’amore, la spiritualità, anche un’idea di Dio». L’idea, per quanto nobile, non ha raggiunto il suo scopo. Ed è stato un peccato; perché la bravura dei due interpreti si percepiva, ma passava in secondo piano rispetto alle battute che cercavano di recitare in maniera del tutto poco convincente. Carina la trovata iniziale di far entrare gli attori dalla sala e farli accomodare in prima fila, ma se si fosse aspettato il buio totale, si sarebbe evitato quel fastidioso chiacchiericcio tra gli spettatori che ha distolto l’attenzione dall’azione. Imbarazzato l’applauso finale del pubblico che, invitato a rimanere dopo lo spettacolo per fare qualche domanda agli autori/attori, in gran parte ha preferito andar via. Meraviglia che un’associazione culturale, che ha avuto una stagione ben curata e che ha inserito nel suo cartellone artisti insigniti di riconoscimenti teatrali tra i più prestigiosi (basti pensare a Giuseppe Mortelliti con “84 Gradini”, Premio Special Off Roma Fringe Festival 2014 e Outstanding Solo Performance Award San Diego Fringe Festival 2015 e Renata Falcone con “Quindicimila”, Selezione Premio Scenario 2015), abbia scelto di salutare l’affezionato pubblico con un tentativo forse troppo azzardato. È stato fatto il passo più lungo della gamba ed è stato un vero peccato. Non c’è che dire.

Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it

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