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Processo Rifiuti 2 spa, chieste pene durissime per affiliati e colletti bianchi

REGGIO CALABRIA Sono pene pesantissime quelle chieste dal pm Rosario Ferracane al termine della sua requisitoria al procedimento Rifiuti 2 spa, che ha svelato come il clan Alampi avesse continuato a…

Pubblicato il: 19/04/2016 – 17:36
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Processo Rifiuti 2 spa, chieste pene durissime per affiliati e colletti bianchi

REGGIO CALABRIA Sono pene pesantissime quelle chieste dal pm Rosario Ferracane al termine della sua requisitoria al procedimento Rifiuti 2 spa, che ha svelato come il clan Alampi avesse continuato a mantenere il controllo sullo smaltimento in città, nonostante inchieste e processi avessero svelato e sanzionato l’infiltrazione. Un dominio rimasto incontrastato – ha svelato l’inchiesta – grazie ai legali Giulia Dieni e Giuseppe Putortì e all’amministratore giudiziario, Rosario Spinella.
PENE PESANTI PER I COLLETTI BIANCHI Postini di messaggi e indicazioni fra il carcere e l’esterno, ambasciatori di direttive e indicazioni, poi girate all’amministratore in teoria scelto per bonificare aziende e imprese dall’ingerenza degli Alampi, i tre professionisti hanno svolto per il pm un ruolo fondamentale nel rafforzamento del clan. Per questo, sono da considerare al pari di affiliati e dunque da condannare a pene pesantissime. Tredici anni di carcere e un anno di libertà vigilata sono stati chiesti per gli avvocati Giulia Dieni e Giuseppe Putortì, mentre 12 anni e un anno di libertà vigilata sono stati invocati per Spinella. Ancora più pesante, è la condanna chiesta per Lauro Mamone, amministratore dell’impresa, ma considerato il vero «alter ego» del boss, del quale seguiva scrupolosamente tutte le direttive. Per lui il pm Ferracane ha chiesto 19 anni e 5300 euro di multa , più un anno di casa lavoro, mentre è di 16 anni, più 5mila euro di multa e un anno di casa lavoro la condanna invocata per il direttore tecnico Domenico Alati.

LA SCURE DELLA DDA SUL CLAN Per il boss Matteo Alampi, vero e proprio regista dell’impresa che – quanto meno in teoria – era stata sottratta al suo controllo, la pubblica accusa ha chiesto invece 20 anni di carcere, più 5mila euro di multa e un anno di casa lavoro, mentre 19 anni di detenzione e un anno di casa lavoro sono stati chiesti per Giovanni Alampi e 15 anni più 2 anni di libertà vigilata per Carmelo Alampi. È invece di 12 anni di carcere, più 3mila euro di multa e 2 anni di libertà vigilata la condanna invocata per la moglie del boss, Giovanna Siclari, mentre 12 anni senza pene accessorie sono stati chiesti per Paolo Siclari. La Dda ha inoltre chiesto la condanna a 14 anni e 6 mesi più tremila euro di multa, più un anno di casa lavoro di Antonio Quattrone, mentre è di 4 anni ciascuno la pena chiesta per Carmela Barreca, Laura Barreca e Andrea Cutrupi. Infine, 2 anni e 6 mesi di carcere sono stati invocati per Ivo Nucera.

L’INCHIESTA In linea di continuità con quanto accertato dalla prima inchiesta Rifiuti, la nuova tranche investigativa da cui è scaturito il procedimento ha mostrato come gli Alampi operassero con le medesime modalità, secondo il medesimo descritto canovaccio e per il perseguimento dei medesimi fini – la diretta gestione degli appalti nel settore dei rifiuti – del passato. Oggi come allora – ha svelato l’inchiesta – il clan è riuscito a entrare nel nel settore degli appalti pubblici tramite proprie aziende e imprese risultate vincitrici di gare i cui proventi venivano poi distribuiti con il direttorio criminale della città.

UN MECCANISMO SOFISTICATO «Mediante il fittizio paravento giuridico di un’impresa – la Rossato sud s.r.l. ed il Consorzio Stabile Airone sud – della quale continua a mantenere la direzione e la gestione, nonostante i provvedimenti ablativi dell’Autorità Giudiziaria – scrive quasi indignata il gip Barbara Bennato – la cosca riesce a perseguire i propri scopi illeciti e ad assicurarsi guadagni dall’esercizio di attività imprenditoriali dalle quali è formalmente estranea». Il meccanismo – stando a quanto emerge dalle indagini – era sofisticato e necessitava dell’appoggio di professionisti come i legali Dieni e Putortì, incaricati di far filtrare ordini e direttive, come di Lauro Mamone, scelto da Matteo Alampi e tanto fedele e scrupoloso nell’attuazione delle direttive da essere definito dal gip vero “alter ego” del boss, e del direttore tecnico Domenico Alati.

IL RUOLO DEI PROFESSIONISTI Seguendo scrupolosamente le direttive di Alampi, «vero e proprio regista dell’impresa»- all’epoca detenuto ma in grado persino di scegliere una nuova squadra di collaboratori, tra impiegati, operai ed autisti già in passato al suo servizio nella Edilprimavera – i professionisti scelti da Alampi hanno provveduto a risanare economicamente i bilanci dell’impresa sequestrata al clan, con una mirata attività di saldo dei debiti e concomitante recupero dei crediti, ma soprattutto con il sistematico ricorso ai tradizionali metodi di intimidazione mafiosa nei confronti di fornitori e clienti. Nel frattempo però, la Edilprimavera – con la complicità dell’amministratore giudiziario Rosario Spinella – veniva progressivamente svuotata e utilizzata esclusivamente per il nolo a freddo dei mezzi d’opera a tutto vantaggio della Rossato Sud e del Consorzio Stabile Airone Sud. Ed erano proprio queste le società che oltre ad assumere fittiziamente personaggi del calibro di Diego Rosmini e Francesco Condello – il figlio del superboss Pasquale- come di altri uomini riconducibili ai clan, fatturavano operazioni inesistenti o emettevano fatture ben al di sopra delle reali spese per creare il nero necessario per le necessità della cosca o per “retribuire” la cosca territorialmente competente, quando i lavori si svolgevano fuori dall’area di competenza degli Alampi.

DA CALANNA A GIOIA TAURO, LAVORA SOLO ALAMPI È quanto successo – ad esempio – nel caso dei lavori per la bonifica e la successiva riapertura della discarica del piccolo comune di Calanna , ottenuta con la compiacenza dell’ex sindaco, Luigi Catalano, che avrebbe fatto redigere dall’ufficio tecnico comunale un bando di gara, con parametri concordati con i vertici dell’impresa mafiosa. Ma il piccolo comune del reggino non è stato l’unico a sentire sulla pelle il peso del ramificatissimo clan. A Gioia Tauro, gli Alampi sono riusciti a inserirsi con un proprio referente all’interno della Termoenergia spa, controllata di Veolia, il colosso francese che all’epoca gestiva le attività gravitanti intorno al termovalorizzatore. E sarà proprio lui a permettere al clan di aggiudicarsi i lavori di ricopertura della discarica Marrella di Gioia. Ma le indagini anno anche evidenziato l’esistenza di accordi tra gli Alampi ed i titolari della società Filtrans, riconducibile alla cosca Ficara, per appropriarsi di rilevanti somme di denaro ai danni della stessa Veolia, attraverso un collaudato sistema di false fatturazioni per prestazioni in subappalto.

MERCATO ASSUEFATTO AL CRIMINE «L’ingente mole di attività captative – supportata da ulteriori attività tecniche, sottolineava il gip nell’ordinanza – ha fornito la possibilità di comprendere e documentare altresì la illecita gestione di attività realizzate nel settore “ecologico”, realizzata con la complicità di molteplici soggetti (privati e pubblici),risultata prezioso humus funzionale all’incremento degli introiti del sodalizio, nonché – aggiunge il gip Bennato – un inquietante spaccato della vita economica del territorio, caratterizzato dall’impossibilità di un regolare e corretto funzionamento del mercato, ormai assuefatto a meccanismi basati sull’intimidazione mafiosa e sulla connivenza, tale da consentire il conseguimento di ingenti profitti tanto a favore delle cosche dominanti sul territorio che degli imprenditori “a disposizione” delle medesime. cosche dominanti sul territorio che degli imprenditori ».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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