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Mollace e la storia di una «macchinazione»

REGGIO CALABRIA «Una macchinazione» della quale è necessario individuare i responsabili. Al procuratore generale della Corte d’Appello di Roma bastano poche parole per consegnare alla procura di Ca…

Pubblicato il: 26/05/2016 – 9:54
Mollace e la storia di una «macchinazione»

REGGIO CALABRIA «Una macchinazione» della quale è necessario individuare i responsabili. Al procuratore generale della Corte d’Appello di Roma bastano poche parole per consegnare alla procura di Catanzaro una matassa da sbrogliare difficile e delicata, che tira in ballo un controverso collaboratore, divenuto suo malgrado simbolo di una stagione.

IL MISTERO LO GIUDICE Si tratta di Nino Lo Giudice, autoproclamato padrino, prima pentito, poi pentito di essersi pentito, quindi latitante, riacciuffato dopo un paio di mesi durante i quali si è premurato di confezionare due esplosivi memoriali in cui ha sconfessato quanto in precedenza dichiarato, in seguito acquisiti nei processi come «fatto storico», ma senza che quelle dichiarazioni avessero peso alcuno. Un enigma, tuttora non sciolto, tracimato anche nel procedimento che per mesi ha tenuto impegnato Mollace. Perché Nino il Nano contro Lo Giudice ha puntato il dito, accusandolo di essere uno dei magistrati con cui il fratello Luciano fosse in contatto.

TRASMISSIONE ATTI Accuse mai sufficientemente solide o riscontrate da permettere un’indagine a carico del magistrato, protagonista insieme ad altri di una stagione gloriosa della lotta giudiziaria alla ‘ndrangheta, ma che lo hanno portato in aula da testimone al processo contro il clan Lo Giudice. Una deposizione meritevole di attenzione da parte dei colleghi di Catanzaro per il pm Beatrice Ronchi, che ha chiesto e ottenuto che lì fossero trasmessi gli atti in relazione alle posizioni di Mollace, come di Luciano Lo Giudice, a detta del pm favorito dalle indagini omissive del magistrato, e per Nino Spanò, imprenditore considerato testa di legno dei clan, ma di recente assolto dall’accusa.

IL FATTO NON SUSSISTE Un’inchiesta rivelatasi una bolla di sapone e per questo conclusa con un’assoluzione tombale – «perché il fatto non sussiste» – disposta da due diversi gup per i tre indagati: Luciano Lo Giudice, imprenditore dell’omonimo clan che l’ultima sentenza a carico ha bollato come semplice partecipe, Nino Spanò, imprenditore nautico considerato prestanome dei Lo Giudice, di recente assolto con formula piena, e il pg Mollace, che secondo «un’accusa infamante» avrebbe favorito il clan omettendo i doverosi approfondimenti investigativi. Ma questa – ha spiegato anche di fronte al gup di Catanzaro il pg Mollace, in dichiarazioni che ha chiesto di segretare – è sempre stata un’accusa falsa. Basata – e questo è l’elemento grave – su dati falsi e ricostruzioni omissive.

MACCHINAZIONE «Ho provato e documentato macchinazioni e falsi plateali a mio danno – ha detto al riguardo il procuratore –. È stata perfino spostata la mia presa di possesso alla Procura generale di Reggio Calabria, così come sono stato collocato in un determinato giorno a Reggio Calabria mentre ero ufficialmente a Roma in audizione al Csm». Il giorno è quello del presunto incontro con l’avvocato Pellicanò, impossibile – provano documenti riservati dell’ufficio scorte prodotti oggi da Mollace – perché il procuratore non era presente a Reggio. «Purtroppo – ha continuato il pg – ho dovuto denunciare che per la vicenda relativa alla scomparsa di Angela Costantino (moglie di Pietro Lo Giudice, ndr) è stata persino nascosta un’informativa pur di creare sospetti a mio carico».

LA MEMORIA DELL’8 LUGLIO Tutti elementi, insieme ad altri documentati nella lunghissima memoria che il magistrato ha depositato l’8 luglio scorso di fronte al gup di Catanzaro, da cui emerge un quadro profondamente diverso da quello tracciato nella nota con cui il pm Beatrice Ronchi, oggi in forza alla Dda di Bologna, ha trasmesso gli atti ai colleghi del distretto competente sui magistrati reggini. Da quelle righe, poi in larga parte tracimate nel capo di imputazione contestato a Mollace e ai suoi coindagati, emergeva l’immagine di una toga strabica rispetto alle attività del clan Lo Giudice. Ma proprio questa – ha dimostrato il magistrato in 44 pagine di memoria – è stata la prima e più clamorosa delle falsità.

LA VERITÀ SULLE INDAGINI SULLA COSTANTINO «L’unico “addebito” che si può muovere al magistrato – si legge nella memoria – è quello di avere continuato a indagare sia sulla cosca Lo Giudice sia in ordine alla scomparsa della Costantino a seguito delle dichiarazioni di Iannò Paolo sino alla cessazione della titolarità dei procedimenti». Non a caso, si spiegherà nell’atto, sarà l’allora pm Mollace a disporre le deleghe per il sequestro cartelle cliniche della Costantino, deleghe di interrogatori, sopralluoghi per il rintraccio del cadavere, acquisizione di documenti, mentre è toccato al pm Mario Andrigo – e non a Mollace, la cui applicazione in Dda era scaduta – chiedere l’archiviazione del fascicolo sulla scomparsa della Costantino, sulla base di informative e approfondimenti assolutamente incapaci di individuare elementi concreti su mandanti ed esecutori a partire dalle dichiarazioni dei collaboratori. E in mezzo – si legge nella memoria – ci sono anche una coassegnazione con il pm Luca Palamara, una richiesta di custodia cautelare a carico di 11 persone rigettata dal gip, una nuova assegnazione – esclusiva – ad Andrigo, quindi la richiesta di archiviazione. Allo stesso modo sarà il pm Santi Cutroneo, e non Mollace, a firmare la richiesta di archiviazione per le indagini sulla morte della Costantino scaturite dalle dichiarazioni di Iannò.

E SU LUCIANO Ma in più, i magistrati di Reggio prima e di Catanzaro poi contestano a Mollace di non aver mai iscritto Luciano Lo Giudice. Un’accusa cui il pd della Corte d’appello di Roma risponde in modo lapidario. «È la stessa matrice delle valutazioni che si sono espresse in relazione alla scomparsa di Angela Costantino: si esigono dal dottor Mollace condotte inesigibili e non si ragiona sul solo dato incontrovertibile, ossia che il narrato di Lo Giudice Maurizio e Iannò Paolo non ha mai riguardato Lo Giudice Luciano e, quanto alla cosiddetta cosca Lo Giudice, il magistrato era in attesa dei riscontri affidati ai carabinieri e compendiati nell’informativa del 2004 consegnata al dottor Cutroneo». Vale a dire, quando Mollace con il fascicolo non aveva più nulla a che fare.

L’UNICO CHE HA INDAGATO CONTRO IL CLAN Questo – si legge nella memoria – porta ad una conclusione «l’Accusa ha immaginato travasi di atti, parcellizzazioni, omesse riaperture di indagini a carico di soggetti mai iscritti (la cd. cosca Lo Giudice), perché mai denunciati e ha dimenticato che le uniche due iscrizioni per il reato di associazione mafiosa operate a carico di componenti del nucleo familiare dei Lo Giudice provengono – in molti anni – solo dal dottor Mollace: la prima nel 2000 a carico di Lo Giudice V. , Lo Giudice Maurizio, Villani C., Villani G., Lo Giudice A. Borghi A., Lo Giudice D., Varano O., Giandoriggio P. e Latella P. e la seconda nello stesso anno a carico di Lo Giudice Luciano. A dispetto di ogni contiguità o corruzione». In più – si ricorda nel documento – «è stato il dottor Mollace il pubblico ministero che ha svolto l’attività dibattimentale che ha dato cagione alla condanna per duplice omicidio e duplice tentato omicidio di Villani Consolato, sedicente adepto della cosca Lo Giudice e ora ritenuto collaboratore di giustizia», e sempre a Mollace è toccato «coltivare l’accusa in un procedimento praticamente abbandonato ed conseguire la condanna di Lo Giudice Antonino e Lo Giudice Domenico nell’anno 1996».

QUALE RAPPORTO? Elementi che smontano pezzo dopo pezzo la tesi dell’accusa sulla presunta «parcellizzazione» delle indagini, al pari di quelli – documentati al centesimo – che disinnescano il presunto accordo corruttivo fra il magistrato e Luciano Lo Giudice. E al riguardo, si aggiunge, «difetta all’Accusa qualunque prova che il dottor Mollace – nei circa due anni che intercorrono tra
questi atti processuali e l’inizio dell’estate del 2004 – possa aver conosciuto il Lo Giudice e, soprattutto, possa aver avuto rapporti commerciali con lo Spanò che siano in qualunque modo riconducibili alla posizione di mediazione da parte di costui – allora titolare della “Nautica Spanò” – che il pm addita nel capo di imputazione. Si tratta di un punto decisivo della vicenda che, necessariamente, ne rappresenta il prologo, anzi il nucleo centrale. L’Accusa non dispone di alcuna relazione tra il sottoscritto e il Lo Giudice, ragion per cui è costretta a mediare questa relazione adoperando la posizione dello Spanò che, invece, della piccola imbarcazione del magistrato si era occupato».

«LA MIA DDA» Un lungo passaggio è dedicato poi alla contestazione dell’articolo 7 che indica l’aggravante mafiosa. E nonostante il linguaggio formale proprio dell’atto, l’indignazione del magistrato è evidente in ogni singola virgola. Anche perché Mollace è cosciente della storia di quella sua Dda «quand’era diretta da Salvatore Boemi e della quale mi onore di avere fatto parte unitamente a colleghi valorosi come Giuseppe Verzera, Roberto Pennisi, Alberto Cisterna, Nicola Gratteri e Fulvio Accurso», che in anni difficili, in cui la reale natura della ‘ndrangheta veniva ancora messa in discussione, «ha condotto centinaia di battaglie giudiziarie con le sole armi della dignità e della legalità e non con imbrogli e falsità».

LE CARTE PARLANO Per questo, è con veemenza che il magistrato nella memoria riporta «nell’arco temporale che va dalla nascita di Luciano Lo Giudice (19 luglio 1974) sino al 2011 – si legge nella memoria – non vi sono provvedimenti o atti giudiziari che valgano a dimostrare l’appartenenza di questo soggetto a una cosca mafiosa, né che questa esista in altri suoi componenti. Anzi, a ben guardare, due atti esistono: il primo è l’iscrizione di Lo Giudice V. , Lo Giudice Maurizio, Villani C., Villani G., Lo Giudice A. Borghi A., Lo Giudice D., Varano O., Giandoriggio P. e Latella P. per il delitto di cui all’art.416-bis c.p., commesso – si badi bene – in Reggio Calabria sino al 1998 nell’ambito del procedimento n. 156/97 RGNR, poi archiviato su richiesta del dottor Mario Andrigo; il secondo è l’iscrizione curata dal dottor Mollace nell’ambito del procedimento n. 1071/00 RGNR disposta al fine di verificare se in qualche modo Lo Giudice Luciano fosse da considerare partecipe di un gruppo mafioso; ma, come detto, anche quell’accertamento sortì un effetto totalmente negativo».

FORZATURE Per questo sottolinea il procuratore «teorizzare, avventatamente, che le pretese condotte del dottor Mollace siano state non soltanto orientate, ma come espressamente afferma il capo di imputazione, capaci in concreto di agevolare la cosca Lo Giudice si configura come un elemento strumentale, adoperato verosimilmente dall’Accusa per procedere alla iscrizione di un reato che altrimenti sarebbe stato prescritto sin dall’inizio dell’indagine». Traduzione, perché l’accusa tenesse, era necessario contestare l’aggravante. Un’accusa infamante e infondata. È stata «la presunta condotta agevolatrice ad assegnare un ruolo – che altrimenti mai avrebbe potuto avere in questa vicenda – al Lo Giudice Luciano, soggetto rispetto al quale il dottor Mollace ha sempre esercitato con rigore le funzioni inquirenti a lui rimesse e che è completamente estraneo alle attività commerciali intercorse tra il magistrato e lo Spanò». Adesso la sentenza del gup di Catanzaro lo ha messo nero su bianco e il magistrato ha fornito al giudice tutti gli elementi per valutare. Ma si tratta di materiale che potrebbe toccare alla procura di Catanzaro valutare perché – come auspica Mollace – venga «dato un volto ai responsabili di questa macchinazione».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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