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LA SANTA | Caccia agli altri membri della cupola

REGGIO CALABRIA La chiave sta tutta nelle parole che Francesco Chirico, funzionario regionale imparentato con il clan De Stefano e al servizio della cupola, si lascia scappare. «C’è un’altra cosa anc…

Pubblicato il: 15/07/2016 – 18:29
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LA SANTA | Caccia agli altri membri della cupola

REGGIO CALABRIA La chiave sta tutta nelle parole che Francesco Chirico, funzionario regionale imparentato con il clan De Stefano e al servizio della cupola, si lascia scappare. «C’è un’altra cosa ancora che non la sanno nemmeno loro – dice, parlando dei magistrati – qua a Reggio contano i… i Segreti… Giorgio De Stefano gliel’ha calata la questione… sei, sette… erano in totale …(inc.)… il coso è di sette». Il “coso”, che Chirico forse non si azzarda neanche a nominare, è l’organismo di vertice della ‘ndrangheta, la sua componente più riservata e segreta che da anni governa i destini e decide le macrostrategie delle ‘ndrine tutte. I magistrati la chiamano cupola e per il pm Giuseppe Lombardo ne fanno parte gli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Sulle tracce degli altri cinque si lavora alacremente. Secondo alcune indiscrezioni, i loro nomi sarebbero già fra i trenta che la Dda ha iscritto sul registro degli indagati e blindato come top secret. Allo stato, a filtrare è stato solo quello dell’ex sindaco ed ex governatore Scopelliti, perquisito oggi dagli uomini del Ros. Ma sono in molti a Reggio Calabria e non solo a tremare. Quello degli invisibili utilizzati dalla cupola è un vero e proprio esercito. Si sono mossi sempre con cautela, ma alcune tracce sono rimaste. E sono antiche.

IL LUNGO FILO ROSSO Le prime tracce dei riservati risalgono all’indagine Bellu Lavuru, che ha svelato come – ancor prima di aprire i cantieri – le grandi aziende approdate in Calabria per costruire le grandi opere pubbliche come la statale 106, si sedessero a tavolino con uomini dei clan. Senza incontrare difficoltà alcuna nell’identificarli. Motivo? Lo lascia intendere Sebastiano Altomonte, ‘ndranghetista e massone, regolarmente iscritto al Goi, che al suo interlocutore spiega l’esistenza di due diverse componenti nella ‘ndrangheta, «la visibile e l’invisibile». La prima – afferma – «non conta» mentre «noi altri», per un totale di «cinque», «siamo a quella invisibile». Un livello così importante e riservato da escludere molti capo locale, perché «lo sanno solo nel provinciale».

LA VERITÀ DI LUNI Parole che trovano eco precisa in quelle intercettate a casa del boss Luni Mancuso, che della nuova ‘ndrangheta impastata di logge, ha declamato quasi un manifesto. «La ‘ndrangheta non esiste più! … una volta, a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, a… c’era la ‘ndrangheta!… la ‘ndrangheta fa parte della massoneria!… […] diciamo… è sotto della massoneria, però hanno le stesse regole e le stesse cose… […] ora cosa c’è più? …ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta! …[…] una volta era dei benestanti la ‘ndrangheta! … dopo gliel’hanno lasciata ai poveracci, agli zappatori… e hanno fatto la massoneria!… le regole quelle sono!… come ce l’ha la massoneria ce l’ha quella!». C’è troppa gente che fa quello che vuole, non rispetta le regole e si mostra in modo eccessivo fra quelli che si definiscono appartenenti alla ‘ndrangheta – spiega il boss – per questo il vero potere ha trovato altra forma per contarsi e confrontarsi. E i magistrati si illudono di aver capito dove si annidi.

CAMBIANO I PARTITI, CAMBIA LA ‘NDRANGHETA «La vera ‘ndrangheta – pontificava infatti il boss – non è quella che dicono loro… perché lo ‘ndranghetista non è che va a fare quello che dicono loro. […] ancora con la ‘ndrangheta sono rimasti!… è finita!… bisogna fare come… per dire… c’era la “democrazia”… è caduta la “democrazia” e hanno fatto un altro partito… forza italia, “forza cose”… bisogna modernizzarsi!… non stare con le vecchie regole!… […] il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose!… oggi la chiamiamo “massoneria”… domani la chiamiamo p4, p6, p9…[…]»

DIVERSO IL MANDAMENTO, IDENTICA LA DENOMINAZIONE Passano gli anni, cambia il clan di riferimento, la zona e il mandamento, ma uguale è il linguaggio, uguale è il messaggio. La ‘ndrangheta è cambiata, si è evoluta per sopravvivere a se stessa e all’infoltimento dei suoi stessi ranghi, sdoppiandosi in un organismo che il corpo delle ‘ndrine stesse neanche conosce. E che ‘ndranghetisti di aree diverse definiscono in maniera univoca, come nello stesso modo illustrano compiti e funzioni della nuova struttura.

LA VERA NDRANGHETA E I GIOVANOTTI «La sola possibilità, da costoro ammessa, di continuare ad esercitare un reale potere criminale – scrive il gip Domenico Santoro – in buona sostanza, passa mediante l’inserimento di una parte dei sodali in contesti «invisibili» o «riservati», ergo «segreti», di fatto ad ordinamento massonico, in modo tale da consentire alla ‘ndrangheta di tutelarsi rispetto alle avventate iniziative di alcuni suoi partecipi, tanto che plastica è l’affermazione di Mancuso quando afferma che gli ‘ndranghetisti comuni, in buona sostanza, altro non sono che “giovanotti che vanno… vanno a ruota libera”».

LE CONFERME DI BELNOME Un processo evolutivo che aveva spiegato in dettaglio anche il pentito Antonino Belnome, ex padrino di Guardavalle trapiantato a Milano, che il 3 aprile 2014 racconta ai magistrati «la Ndrangheta… già quando ero fuori io… stava subendo una metamorfosi»,- dovuta al fatto che «è sputtanata» e «non vuole essere pubblicizzata». Tutti – e soprattutto inquirenti e investigatori – sanno troppo di tutto e di tutti. Ecco perché – aggiunge – «si stava creando una situazione sostanzialmente più massonica… rimanendo le regole quelle… ma facendola diventare ad alto livello… cioè la manovalanza veniva un attimino… messa un attimino a… a distanza e veniva creato una… una… un… una situazione massonica dove tutta è di alto livello». Un processo – sottolinea, a conferma di quanto detto da altri – che non riguarda un clan, ma la ‘ndrangheta tutta.

GLI AMICI In aggiunta, il pentito svela un dettaglio importante per i magistrati. Nella nuova struttura – dice – non ci sono solo uomini del clan ma «entravano anche dei soggetti… estranei nella Ndrangheta», che «però favorivano l’associazione», in quanto «ad alti livelli bisogna essere amici dello Stato, non nemici» mentre a chi «fa parte della locale di ndrangheta è proibito avere rapporti con gli apparati dello Stato… fino allo sgarro», mentre «a livello eccelso ci si deve avere l’amicizia con lo Stato». Dichiarazioni che si incastrano perfettamente con quelle del pentito reggino Nino Fiume, che ha raccontato anche in pubblica udienza come il clan De Stefano si sia sempre servito di “riservati”, soggetti che, pur non essendo ritualmente affiliati, erano da ritenere in tutto e per tutto intranei al clan. Uomini come l’ex amministratore giudiziario Giovanni Zumbo, ex antenna dei servizi in odor di logge, pizzicata a soffiare importanti informazioni all’orecchio del boss Pelle.

DIETRO I GREMBIULI Argomenti che ritornano – identici – nelle dichiarazioni del pentito Consolato Villani, ce già a fine 2010 mette a verbale «che le persone più importanti della ‘ndrangheta sono massoni», fanno parte di una struttura invisibile e sconosciuta ai più, e solo loro «le persone invisibili diciamo quelle che sono più in alto ancora che hanno contatti con il mondo politico con la … qualsiasi tipo di, di… con altre parti della società sono i massoni».

RISCONTRI BLINDATI Sono parole identiche a quelle che pentiti e ‘ndranghetisti in attività, affiliati di rango e boss, con cui Villani non è stato a contatto, hanno ripetuto – identiche – in anni e in contesti diversi. Parole che spiegano come mai Pasquale Condello, appena dopo la cattura, si sia preoccupato di dire al pm Giuseppe Lombardo, al colonnello Valerio Giardina e al tenente Gerardo Lardieri, un’unica frase «se ne vedranno delle belle a Reggio Calabria perché si sono rotti determinati equilibri». Un’affermazione – spiega il gip Santoro – da leggere in combinato con lo scritto ritrovato nel suo covo e vergato dal Superboss in persona, con cui Condello contestava ad un magistrato rimasto ignoto di colpire solo alcuni clan.«Un dato – scrive il giudice – dimostrativo della costante capacità dell’organizzazione criminale, peraltro in un periodo storico in cui De Stefano Giuseppe era ancora libero, di intessere e mantenere proficue e stabili relazioni nel caso di specie con appartenenti alla magistratura o alle professioni legali». Un dato che diventa di agghiacciante attualità alla luce del «coso» di sette elementi segreti «di Giorgio De Stefano» di cui Chirico involontariamente conferma l’esistenza.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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