REGGIO CALABRIA C’è un filo rosso che lega Mani pulite alle prime inchieste che hanno svelato a Reggio Calabria cosa sia la ‘ndrangheta. È scomparso dalle cronache ufficiali, ma rimane bene impresso nella memoria e forse nei rimpianti dei protagonisti. Lo hanno detto chiaro l’ex pm di Tangentopoli, Antonio Di Pietro, e il pg alla Corte d’Appello di Roma, Francesco Mollace: «Noi siamo stati fermati».
UNITI NELLO STOP Ospiti di un “caminetto” organizzato dal Rotary club Parallelo 38, a Reggio Calabria, Di Pietro e Mollace parlano senza filtri della stagione che li ha visti protagonisti, ai due capi opposti dell’Italia, delle inchieste destinate a modificare la storia e la percezione collettiva della Repubblica. Ma se diverso è il contesto – geografico e giudiziario – in cui i due hanno operato, identico è il rammarico, come identico – al netto delle particolarità ambientali – è il sistema contro cui si sono trovati a combattere.
RICOSTRUZIONE CRIMINALE «Tangentopoli non nasce nel ’92, quando arrestiamo Mario Chiesa – dice Di Pietro –. Il sistema nasce nell’immediato dopoguerra». All’epoca, le regole democratiche da poco restaurate non sono servite solo per emancipare la società dal giogo fascista, ma anche a consolidare un’élite che sulle regole del libero mercato e sul suffragio universale ha costruito la propria roccaforte di potere. Nella giovane Italia, anche i voti sono diventati merce sul libero mercato, barattata con appalti e lavori assegnati non in nome della competenza, ma dell’appartenenza a un cartello di imprenditori “eletti”.
LE CASTE «Dal dopoguerra – spiega l’ex pm – il sistema si è evoluto fino a creare una casta all’interno della politica, che a prescindere dal partito di appartenenza, usava lo Stato solo per spolparlo, e una casta all’interno dell’imprenditoria, che si limitava a dividersi i lavori, a prescindere dalle competenze. Bastava essere dentro per essere certi di avere prima o poi in cambio un appalto». Per questo tutti pagavano e nessuno parlava. Per questo, negli anni Novanta a Milano si è iniziato a parlare di “dazione ambientale”. Al pari della cosiddetta tassa di sicurezza del 3% sul valore dell’appalto in terre di mafia, sotto la Madonnina – e non solo – si pagava per far parte del sistema. Così – racconta Di Pietro – si è costruito il percorso che ha condotto all’Italia degli anni Novanta e a quella di oggi, un Paese «in cui i nostri figli non hanno futuro anche a causa dei problemi accumulati nel passato».
IL SISTEMA A OMERTÀ NECESSARIA Nonostante per un certo periodo sia riuscita a rompere parzialmente la cappa di silenzio che per anni ha protetto il sistema, neanche Mani pulite è riuscita a scardinarlo. All’epoca, anche grazie a norme poi cancellate dal governo Berlusconi, in tanti hanno rotto il meccanismo del reato «a omertà necessaria» che governava la corruzione. «E forse – ammette l’ex magistrato – dimostrare il reato era più facile, perché i soldi li trovavamo nello sciacquone del bagno, nel puff, nelle valigette, adesso la mazzetta è stata ingegnerizzata». Poi, quando l’inchiesta stava per arrivare al cuore del sistema, dall’alto, a Mani pulite è stato imposto uno stop.
RAMMARICO Nonostante si definisca «ormai parte dell’associazione combattenti e reduci della magistratura» dunque libero di parlare, i nomi Di Pietro non li fa, ma come in passato, rimanda alla lettura della relazione del Copasir sulla sua audizione nel 1995. «Lì è il Copasir a dire chi mi ha fermato», aggiunge l’ex pm, sottolineando il rammarico per un lavoro lasciato a metà. Il medesimo che gronda dalle parole di Francesco Mollace, per anni in forze alla prima Dda di Reggio Calabria.
QUELLA DDA CHE FA ANCORA PAURA Quella che ha svelato il vero volto della ‘ndrangheta nuova, impastata di politica e massoneria, quella che ha distribuito centinaia di ergastoli fra i maggiori esponenti delle cosche reggine, quella che è stata – ferocemente – fermata quando si stava pericolosamente avvicinando al cuore politico e imprenditoriale del sistema. Quella che oggi si tenta da più parti di delegittimare. Nel corso della sua carriera, Franco Mollace non le ha mai mandate a dire. È duro in aula, esigente con gli investigatori, severo con i colleghi, e anche quando parla in pubblico non si tira indietro. A Reggio – dice – operano e operavano «sciacalli» che usano la delegittimazione come arma e il fango come metodo. Ma lo fanno perché hanno paura.
Il motivo, per il pg della Corte d’appello di Roma, è molto chiaro e radica nel cuore vero delle inchieste degli anni Novanta. All’epoca, i magistrati della prima Dda, che sulla riva calabrese dello Stretto ha messo in pratica le linee guida dettate da Giovanni Falcone, non si sono occupati semplicemente di criminalità organizzata o di reati contro la Pubblica amministrazione. Il sistema scoperchiato dalle rivelazioni di Agatino Licandro – ex sindaco arraffone che ha pagato con l’ostracismo sociale non le tangenti, ma l’aver rivelato i nomi di chi ha pagato e chi ha incassato – non era indipendente dalla ‘ndrangheta. Era solo la parte più socialmente accettabile e accettata del medesimo sistema.
‘NDRANGHETA È POLITICA (E MASSONERIA) Sebbene in tanti si spendano per negarlo, dagli anni Settanta, quando ha abbracciato eversione nera e massoneria ed è stata chiamata a partecipare al golpe Borghese e alle stragi dell’epoca, la ‘ndrangheta è entrata in politica. Quella ufficiale, delle istituzioni, e quella ufficiosa, del sistema che governava tra riunioni riservate nei salotti e massacri in strade e piazze. I magistrati di Reggio Calabria lo avevano capito, non a caso – ricorda il pg – hanno iscritto per reati di mafia, tanto il delitto Ligato, l’ex potentissimo presidente delle Ferrovie, finito nei guai per lo scandalo “Lenzuola d’oro” e ucciso da un commando mafioso proprio a Reggio Calabria, come gli scenari aperti dalle dichiarazioni del notaio Marrapodi. A Reggio – avevano capito i magistrati all’epoca – c’era un sistema massonico-mafioso che dalle strade agli appalti, dai quartieri ai salotti riservati ed esclusivi, dalle periferie alle stanze della politica, governava la città. E lo fa ancora, dice duro Mollace.
DDA SOTTO TIRO Non a caso, molto delle indagini dell’epoca è tracimato nelle carte dell’inchiesta Mammasantissima, la prima che si sia realmente avvicinata al sistema massonico-mafioso che governa la città. Agli atti dell’inchiesta che oggi fa tremare – ricorda Mollace – sono finite anche molte delle intercettazioni e delle acquisizioni investigative di Olimpia 3, l’indagine sui tentativi di delegittimazione dei magistrati reggini, messi in atto da ‘ndrine e logge, poi spezzata, smembrata e perduta nel rimpallo di responsabilità fra Reggio e Catanzaro. Insieme alle ispezioni ministeriali, ai trasferimenti punitivi, al fango mirato a sporcare le toghe, la delegittimazione – aggiunge il pg – è stata una delle armi usate per smembrare e distruggere quella squadra, contro cui ancora si sparge veleno.
VENDETTE «Ma nessuno – tuona il pg – riuscirà ad offuscare il lavoro della Dda di Boemi, Pennisi, Verzera, Mollace e gli altri con vendette postume». A Reggio – avverte il magistrato – «figliocci, parenti e nipoti» di quel sistema sono ancora al lavoro ed ancora si preoccupano di lavorare per smontare quello che è stato fatto. Ma è un impegno inutile, perché proprio le ultime inchieste dimostrano che c’è un filo – investigativo, logico, di servizio – che lega le inchieste degli anni Novanta a quelle di oggi. Ed è proprio questo che scatena «gli sciacalli». Reggio – conclude Mollace – deve imparare a riconoscerli e a interpretarne le mosse, ma anche a emanciparsi dal sistema che vorrebbero imporre. «E senza attendere liberatori».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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