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«La Locride non è solo quella del baciamano»

Ho preferito attendere qualche giorno, prima di esprimermi sulla vicenda di San Luca. Ho ritenuto fosse giusto non limitarsi a una reazione a caldo, “di pancia”: ne ho lette tante. Tutte sacrosan…

Pubblicato il: 06/06/2017 – 10:41
«La Locride non è solo quella del baciamano»

Ho preferito attendere qualche giorno, prima di esprimermi sulla vicenda di San Luca. Ho ritenuto fosse giusto non limitarsi a una reazione a caldo, “di pancia”: ne ho lette tante. Tutte sacrosante, nell’evidenziare come fosse inaccettabile quel gesto – il baciamano – così plateale, affettato, servile nei confronti del boss Giorgi.
Intervengo oggi, mossa a farlo soprattutto come cittadina della Locride. Esprimo anche io, com’è giusto e com’è ovvio, la più ferma condanna e riprovazione per l’accaduto. Quel baciamano al boss è stato innanzitutto un grave oltraggio ai carabinieri che coraggiosamente hanno stanato uno dei latitanti più pericolosi d’Italia e lo hanno assicurato alla giustizia. Proprio agli uomini dell’Arma va il mio pensiero: le dinamiche dei mass media, con la tirannia dell’agenda setting, hanno spostato l’attenzione dal generale al particolare, distraendoci dall’importanza straordinaria di quell’arresto, che rappresenta l’ennesimo successo della “squadra Stato” nella lotta alla ‘ndrangheta.
Tanto premesso, però, credo che la politica non possa limitarsi, semplicisticamente, a condannare quel comportamento. La politica, semmai, deve interrogarsi sulle motivazioni più profonde di tale emblematica rappresentazione di deferenza nei confronti di un boss. E deve anche fornire un’indicazione, una strada, un antidoto a tutto questo.
Personalmente credo che lo Stato stia facendo la sua parte. Dal 16 ottobre 2005, quando mio marito Franco venne assassinato per mano mafiosa, a oggi, nella Locride è cambiato molto. E molta attenzione è stata rivolta a quest’area della Calabria non solo dalle istituzioni, dalla magistratura, dalle forze dell’ordine, ma anche dalla società civile. Bisogna riconoscere che non sono mancati gli investimenti pubblici né l’interesse collettivo a creare opportunità di sviluppo sano e sostenibile, in aperto contrasto alla mentalità mafiosa.
Quel baciamano tuttavia, e questo dobbiamo avere il coraggio di riconoscerlo, è ben più che un campanello d’allarme o un fatto isolato. È la prova che abbiamo perso qualcosa di assai più importante che una semplice battaglia.
Esso significa – dobbiamo ammetterlo – che le ricette fin qui proposte, da affiancare all’indefettibile azione repressiva dello Stato, si sono rivelate fallimentari. Se ancora oggi, dopo l’arresto di un superlatitante, alcuni cittadini sentono di dover manifestare riverenza al boss piuttosto che applaudire ai carabinieri che li hanno “liberati” dal giogo, allora significa che abbiamo tutti perso.
Da questo fallimento culturale dobbiamo trarre un insegnamento che deve aiutare a risollevarci da terra. Si può ripartire, a condizione di comprendere le ragioni di ciò che è accaduto e di impegnarsi per non ripetere gli errori che ci hanno portati a sbagliare in precedenza.
La pedagogia della legalità, calata dall’alto, astratta, decontestualizzata, non funziona più. La cultura dell’antimafia dimostra i segni del tempo di una proposta che, forse, non siamo stati bravi ad adattare al cambiamento sociale, incuranti delle profonde trasformazioni intervenute, anno dopo anno, nelle relazioni tra i giovani e le istituzioni.
È tutto definitivamente compromesso? No. L’analisi più cruda e realistica del mondo non avrebbe senso se fosse fine a stessa, ma può essere estremamente utile se diventa funzionale a una discontinuità rispetto a un modello ormai superato.
Sono fermamente convinta che gli strumenti pedagogici in grado di incidere in profondità sulle giovani generazioni siano l’esempio e l’inclusione sociale.
Diamo ai nostri giovani dei modelli positivi da seguire: in questo senso, voglio esprimere la mia gratitudine per quanto la Chiesa di Locri, guidata dal vescovo Oliva, sta facendo per creare un profondo sommovimento delle coscienze, fondato sui gesti concreti e sulle scelte coraggiose.
Ma i nostri giovani devono anche essere inclusi, coinvolti, motivati. Devono sentire che, stando con lo Stato, scelgono la parte giusta. Devono sentire di essere in grado di farcela da soli e di poter realizzare i sogni – piccoli o grandi che siano – senza dover ricorrere ad altro che non siano le loro forze. Le esperienze dell’alternanza scuola-lavoro vanno proprio in questa direzione, spingendo verso l’autoimprenditorialità, verso lo sviluppo della creatività e del rischio sostenibile, verso la promozione della cultura della responsabilità sociale.
Oggi non dobbiamo fermarci a quel baciamano. Gli organi d’informazione hanno fatto benissimo a raccontarlo. Ai cittadini, a cominciare da quelli impegnati in politica, spetta il compito più difficile: credere fermamente che le mafie si possono sconfiggere con l’impegno individuale. Lasciare ai margini chi si fa interprete della teatralità dei messaggi mafiosi. Ed essere consapevoli che – prendendo in prestito le parole di Falcone – la mafia, come ogni fenomeno umano, ha un principio, una sua evoluzione e dunque avrà anche una fine. A meno che a tenerla in vita non saremo noi stessi.

*Ex deputata Pd

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