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I potentati sconfitti e lo spazio (che c’è) per cambiare

Partiamo da chi ha perso e lasciamo i nomi per concentrarci sui modelli. Ha perso l’arroganza, hanno perso i virtuosi del trasversalismo, i furbetti della “scheda ballerina”. Ha perso la clientela sp…

Pubblicato il: 05/03/2018 – 15:32
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I potentati sconfitti e lo spazio (che c’è) per cambiare
I potentati sconfitti e lo spazio (che c’è) per cambiare

Partiamo da chi ha perso e lasciamo i nomi per concentrarci sui modelli. Ha perso l’arroganza, hanno perso i virtuosi del trasversalismo, i furbetti della “scheda ballerina”. Ha perso la clientela spicciola, i mediatori di interessi inconfessabili, gli sfruttatori dei bisogni. Hanno perso i maneggioni delle delibere ammiccanti, dei concorsi banditi a tre giorni dal voto, i moderni emulatori della politica in stile Achille Lauro: una scarpa subito, l’altra dopo il voto.
Si carica di motivazioni specifiche lo tsunami calabrese che travolge chiunque abbia governato prima (con Scopelliti) e dopo (con Oliverio).
Il voto mafioso ha fatto capolino anche in questa tornata elettorale, una ‘ndrangheta dal volto “ambrosiano” ma costretta anch’essa ad arretrare davanti all’ira dei turlupinati di ieri e di oggi. Le malefatte del Pd finiscono con il coprire quelle del centrodestra, entrambi però vengono bacchettati dalla montante marea pentastellata.
Sul terreno i “grillini” lasciano solo tre collegi uninominali (uno al Senato due alla Camera), tutti a vantaggio del centrodestra. E c’è una ragione dietro ognuno di questi risultati. Solo una lettura superficiale, infatti, può farli passare come un’affermazione del centrodestra. Non è così: Cannizzaro non è Siclari e tutti e due non sono Wanda Ferro. È la terza volta che tentano di eliminare Wanda dalla scena politica, per la terza volta ci rimettono le penne gli strateghi della politica d’accatto. Quella che eterna il valore del “comparaggio”; quella che ha fatto la storia criminale della nostra Calabria («Il compare di mio compare è mio compare»).
È una storia a parte Wanda Ferro. Ne sa qualcosa Domenico Tallini: bocciato nella sua Catanzaro, umiliato nei suoi quartieri “gitani”. È fuori e con lui resta fuori Mario Magno, mentre la Regione Calabria risparmia seimila euro al mese di vitalizio che Tallini, se eletto, avrebbe incassato in aggiunta allo stipendio da parlamentare. Potrebbe restare doppiamente fuori Giacomo Mancini: non andrà a Montecitorio con il Pd e non subentrerà con il Pdl alla Regione se Fausto Orsomarso mancherà l’elezione nel plurinominale.
Ed eccoci al Pd. Il suo minimo storico (14%) coincide perfettamente con il fondo toccato dalla sua organizzazione territoriale, dalla sistematica distruzione di un reticolato che in qualche modo teneva insieme la base degli iscritti. E dal totale fallimento della sua azione amministrativa, posto che da tre anni alla Regione Calabria opera un monocolore Pd che è servito solo a una limitata baronia politico-imprenditoriale per massacrare chiunque non rispondesse alla sua particolarissima logica. I segnali di una così disastrosa gestione erano arrivati già ad un anno dalla elezione di Mario Oliverio. Cadevano, uno dopo gli altri, tutti i grandi comuni governati dal Pd. Vibo Valentia, Cosenza, Crotone e infine Catanzaro ma guai a invocare un cambiamento di rotta, si finiva sull’albo dei reprobi.
E intanto dalla sigla del partito cadeva, inesorabilmente, l’aggettivo “democratico”: decisioni prese sempre fuori e lontano dagli organismi statutari; assoluta mancanza di qualsiasi dibattito interno; ridottissima autonomia del consiglio regionale rispetto alla giunta Oliverio. Il tutto in un clima, protrattosi fino ai nostri giorni, di totale anarchia, per come testimonia l’ennesima disinvolta piroetta di Enzo Ciconte, al quale tuttavia va riconosciuto il merito di aver offerto il suo ferale abbraccio a Tallini. Intendiamoci, solo gli idioti non cambiano mai idea, e se questo è vero Ciconte ha un quoziente intellettivo capace di oscurare Einstein, per cui se torna alle origini non c’è nulla di scandaloso, solo che dimentica ogni volta di lasciare gli incarichi incamerati. Insomma è come quei viaggiatori che cambiano spesso albergo e, nel farlo, si portano dietro l’accappatoio e il posacenere, che, essendo marchiati, li espongono a qualche cattiva figura.
E adesso? Adesso che succede? Paradossalmente questo interrogativo, con una diversa densità di angoscia, accomuna tutti: amministratori e amministrati, politicanti e politici, cittadini e manutengoli, professionisti della politica e cultori della democrazia. L’interrogativo angoscia, se possibile, ancor di più il mondo del giornalismo nostrano, fin qui mossosi all’insegna del “chi striscia non inciampa”. Che fare? Non è che improvvisamente possiamo pretendere che si cominci, semplicemente, a dare notizie e fare informazione; penne anchilosate e taccuini umidicci non aiutano.
Eppure, guardandola dalla nostra intrepida mongolfiera, da inguaribili sognatori, appare sciocco e superfluo chiedersi: che fare? C’è tantissimo da fare perché oggi abbiamo, comunque la si pensi, la prova che gli spazi per cambiare ci sono; che il cittadino elettore è ancora capace di un sussulto di indignazione; che tornare alla politica schietta e diretta non solo è possibile ma può anche risultare vincente. Vecchi potentati sono caduti in queste ore, non importa chi li ha fatti cadere, importa che si vadano a occupare gli spazi con gente pulita e capace. Dovrà farlo «una rete forte che produce un gruppo compatto di persone solidali». Perché, «se non riscopriamo in fretta il nostro essere comunità non ci sarà azione antimafia che possa reggere. Solo una comunità che ha fiducia nelle istituzioni e senso di sicurezza può contrastare l’illegalità. Se la cultura deve diventare legalità e la legalità cultura ci deve essere un termine medio che sia in grado di realizzare questa sublimazione, e questo termine medio può essere solo la comunità, perché solo lei può essere un argine al malaffare. Una comunità senza cultura e senza consapevolezza della propria storia sarà sempre schiacciata da mafiosi e delinquenti di ogni risma. Per queste ragioni credo che dovremmo essere tutti in grado di rispondere in modo “incazzato” a ciò che succede nella vita politica e burocratica di questa Regione e fare di tutto affinché le cose cambino. E in fretta, anche».
Argomentava così, oltre un anno addietro, Antonio Viscomi che oggi entra nel Parlamento italiano quale capolista del Pd nel proporzionale. Il suo è un “manifesto” della buona politica. Un punto d’inizio. Un segnale di impegno e di speranza che arriva proprio dalle fila di un partito che da questa tornata elettorale esce sconfitto non perché le sue idee fossero sbagliate ma perché chi doveva testimoniarle nella quotidianità si è dimostrato assolutamente inaffidabile.

direttore@corrierecal.it

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