Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo di seguito il capitolo “Emigrati e immigrati come inquietanti revenants?” tratto da “Il vampiro e la melanconia – Miti, storie, immaginazioni” di Vito Teti (Donzelli Editore).
Ci sono certe cose che possono venire solo dai morti (Benn).
Elias Canetti
Sullo sfondo del mio incontro con la figura del vampiro ci sono i miei interessi per alcuni motivi e avvenimenti che hanno segnato la vita e la storia delle culture locali tradizionali: il sangue come elemento di vita e di morte, la tematica del doppio nel fenomeno migratorio, lo spopolamento dei paesi, l’estinzione delle comunità, il tema della nostalgia e della melanconia che segna anche una storia di lunga durata del Meridione.
Accostarsi alla figura del vampiro a partire dall’emigrazione e dalla costruzione identitaria, in cui il sangue gioca un ruolo decisivo, può sembrare un cammino tortuoso. Eppure, di tutte le metafore del vampiro, quella che lo vede affiancato all’emigrazione mi sembra sicuramente una delle più interessanti e, di sicuro, la meno esplorata.
L’emigrato è colui che abbandona l’universo d’origine, smarrisce l’antica ombra e scopre tanti doppi che lo inquietano o lo aiutano nel nuovo mondo. Egli diventa, in un certo senso il «vero defunto», colui che «muore per sempre» nella società tradizionale, dove i defunti continuavano a tornare, a dialogare con i vivi e a far parte della «metastorica famiglia contadina». L’emigrante si trasforma fin dal momento in cui decide di partire e, soprattutto, nei suoi ritorni, provvisori o definitivi, come un revenant che inquieta e perturba, che cerca amore e riconoscimento e che subisce spesso allontanamento ed espulsione da parte dei familiari rimasti, che lo vivono e lo accolgono ora come un aiutante benevolo, ora come una figura che provoca disordine e mette a rischio i valori e la mentalità, l’esistenza stessa dell’universo d’origine.
La letteratura sull’emigrazione – come ho ricordato ne Il paese e l’ombra – ha descritto spesso l’emigrante come uno spettro, un individuo sospeso a metà, a «mezz’aria», a «mezza parete». Al pari del vampiro, l’emigrato perde l’ombra. Nel periodo immediatamente successivo all’arrivo nel Nuovo mondo si verificano nell’emigrato stati di confusione, più o meno profonda, durante i quali egli manifesta ansie molto primitive, panico, paura di «essere divorato» dalla nuova cultura o di essere «fatto a pezzi». Il terrore di essere inghiottito e divorato trasforma, specularmente, l’emigrato stesso in una sorta di revenant. Il desiderio di tornare indietro, nel tempo e nello spazio, è accompagnato spesso da desideri di incorporare, assumere, divorare il paese perduto. Gli emigrati che intraprendono viaggi di ritorno sono visti come divoratori, figure inquietanti e, da parte loro, coltivano fantasie di ripossedere il paese perduto. In una canzone composta negli anni settanta da un emigrato calabrese di Toronto, Vincenzo Iozzo, il paese dove ritorna periodicamente è «tanto bello come un piatto di pignolata», come un dolce buono da mangiare.
La nostalgia alimentare dell’emigrato, spesso ridotta a rimpianto di questo o quell’alimento, è nostalgia del ritorno, desiderio di riconoscimento e lento processo di costruzione di una nuova personalità in un mondo estraneo. Infatti l’emigrato elabora una nuova identità a costo di duri «sacrifici». Il «sangue degli emigrati», «gli emigrati dissanguati» sono immagini tipiche di un nuovo folklore che nasce nel periodo dell’emigrazione. Opere come Emigranti (1928) di Francesco Perri e Cristo fra i muratori (1933) di Pietro Di Donato parlano di un emigrato che si sacrifica, perde il proprio sangue e può diventare simile a un revenant, con lo struggente desiderio di tornare, in maniera inquietante, in paese, tra i rimasti per riacquistare l’antica forza, nuovo sangue. In Emigranti, uno dei rari e più bei romanzi di emigrazione, la terra usurpata dai padroni è il «sangue dei poveri»: i signori usurpatori delle terre, molti dei quali avevano aderito ai moti risorgimentali, si nutrivano del sangue delle terre comunali che appartenevano ai poveri. Il «sacrificio» e il «sangue versato» sono elementi fondanti di una nuova vita (nel luogo d’origine o nel nuovo mondo), come avviene nel romanzo di Di Donato. Il legame tra sangue ed emigrazione emerge in numerose immagini, opere letterarie, metafore politiche. L’emigrazione è stata allegoricamente descritta come fiume, fiumana, marea di uomini: un flusso di persone, cose, case, famiglie; il paese che perde i suoi uomini perde il suo sangue, muore lentamente. La perdita di sangue, il flusso di sangue, legati a situazioni di morte, sono immagini ricorrenti in numerosi documenti e testimonianze sul tema dell’emigrazione. Nella ricca e interessante produzione letteraria di numerosi poeti e scrittori canadesi di origine italiana i temi della morte e del sangue sono ricorrenti.
In un canto di partenza, riportato da Cesare Lombroso, il giovane che si allontana piangendo, promette alla donna una lettera:
Quando che arrivo allo paisi miu,
Fazzio una letteredda, e te la manno.
Di dintro scriverò lo nomi miu,
E la soscritta a lacrimi di sangui.
Il Galileo, il grande piroscafo su cui s’imbarcano gli emigrati descritti da De Amicis – che, come tutti sanno, è l’autore di Cuore, romanzo intriso da forti componenti unitarie e retoriche, ma anche il grande osservatore e narratore delle popolazioni italiane migranti nel romanzo Sull’Oceano (1889) – è una sorta di mostro che con la sua bocca succhia il sangue degli italiani. I ricchi che viaggiano a bordo del piroscafo, in prima classe (d’altronde come De Amicis stesso durante il viaggio che gli fu di ispirazione), sono paragonati a vampiri che dissanguano la povera gente della terza classe. Parlando dell’emigrazione, Pasquale Villari e Giustino Fortunato invitavano a non dimenticare le lacrime e il sangue che essa costava alla popolazione. Costantino Ianni intitola uno dei più appassionati e interessanti libri sull’emigrazione Il sangue degli emigrati.
Emigrazione quindi come dissanguamento, in cui il sangue riveste la valenza di un elemento di morte. L’emigrazione si configura come morte e il viaggio dell’emigrante si ricollega al viaggio del defunto nella società tradizionale. L’ideologia della morte come viaggio nel mondo contadino rinvia alla concezione del viaggio come morte, come notava Ernesto de Martino e come hanno più diffusamente mostrato Luigi Lombardi Satriani e Mariano Meligrana. Il viaggio mitico, il viaggio dei defunti, riflette la perniciosità dei viaggi reali e, complementarmente, il viaggio storico si costituisce come esperienza rischiosa anche sul piano simbolico, proprio perché rinvia al viaggio mitico, paradigma di ogni passaggio. Il nuovo viaggio storico delle classi subalterne, l’emigrazione, viaggio rischioso e pericoloso, viaggio con destinazione ignota, in luoghi lontani e sconosciuti, viaggio con possibilità di non ritorno, viaggio di non ritorno come l’esperienza dimostrava, è viaggio maggiormente protetto anche sul piano simbolico, è iter faticoso che ricalca, modificandoli, la modalità e i termini del viaggio dei defunti. Dal punto di vista dei «sopravvissuti», dei «superstiti», di coloro che non partono, il viaggio dell’emigrante è analogo a quello del defunto, sul quale viene modellato, e come questo viene agevolato, controllato, protetto. Numerosi comportamenti messi in atto prima, durante, dopo la partenza dell’emigrante sono analoghi ai rituali praticati in occasione di un lutto.
Il suono della campana a morte segnala la scomparsa di un membro della comunità. La famiglia informa tutto il paese: è l’annuncio di un lutto, ma anche l’invito a prendere le dovute precauzioni per la situazione di contagio creatasi. In molti paesi, anche le partenze collettive di emigrati venivano salutate con il suono a festa delle campane. È un suono gioioso o anche un addio a chi si avvia a non fare parte più della comunità, un’ingiunzione a non «contagiare» gli altri, a non «chiamare» con sé altre persone? Il temuto e possibile, quindi controllato e annullato, «richiamo» del morto non ricorda forse «l’atto di richiamo» che gli emigrati fanno nei confronti di familiari e parenti?
Si è detto dell’analogia emigrazione-morte perché il sangue, che ricorre nella cultura e nella visione di chi parte, è elemento di morte. Ma il sangue è, nel mondo contadino tradizionale, elemento di vita. Negli antichi riti contadini, nelle feste religiose del Sud versare il sangue è rito di propiziazione, di fecondazione, di rinnovamento. Nei riti della Settimana Santa, Cristo è figura paradigmatica del dolore e della sofferenza umana, ma anche della rinascita. Col sangue versato Cristo salva l’umanità. In modo ambivalente, l’emigrazione è anche l’inizio di nuova vita, rinascita in un altrove non meglio definito. Alla rinascita del mondo contadino, alla Pasqua, alla Resurrezione, al ritorno delle cose e delle stagioni, alla ripetizione dell’identico subentra nel periodo storico in questione un evento di rinascita diverso dal passato. Come osservano numerosi osservatori, i calabresi partono prevalentemente nel periodo primaverile, nei mesi di marzo e di aprile. Giuseppe Scalise ricorda che i contadini, in tale periodo, quando «hanno preparato tutto per assicurare il pane dell’anno alla famiglia rimasta, e mentre i semi appena germinati crescono sulle zolle amiche, essi corrono a seminare i germi del lavoro per una raccolta più abbondante e più sicura».
Il viaggio oltreoceano, duro, scomodo, pericoloso, massacrante, causa di morte, è un rito di passaggio da un mondo all’altro, un rito d’iniziazione a nuova vita che comporta il rischio di perdersi, di non arrivare. Molte e pericolose sono «le prove» da affrontare e superare. Molti non vengono ammessi alla «prova». Numerosi contadini, senza soldi, clandestini vengono rimandati indietro all’arrivo. Il piroscafo su cui avviene l’imbarco è una specie di moderno Orco, di grande Mostro che inghiotte, tiene per quasi un mese i contadini nel suo enorme ven- tre, e poi li espelle. Molti muoiono in viaggio. Nei canti calabresi il legno della nave è «nero», l’acqua è «scura», il mare «profondo»; di nuovo anche De Amicis, quasi a cogliere le visioni e le paure dei contadini che viaggiano, parla di piroscafo nero, di mare buio e pericoloso. An- che il già citato Sull’Oceano, descrizione realistica della fatica del viaggio contadino, può essere visto paradigmaticamente come narrazione di un rito di passaggio. È stato ad esempio osservato che coloro che partono nel romanzo sono ritratti soprattutto come dei trapassati ad altro mondo, avvolti in un’atmosfera luttuosa e mortuaria. Pigiati sui ponti del bastimento, al momento del passaggio dall’equatore, essi appaiono come una «folla sospesa per aria, e che volasse lenta sopra il mare, come uno sciame di spettri».
Il passaggio da «l’acquatore», «liquatore», «il equatore», «lu equatore» è festa perché rappresenta l’ingresso nel nuovo mondo. Si sparano i fuochi, si beve, si urla, i contadini schiamazzano e si abbracciano. È un carnevale. Pare «di essere sul terrazzo d’una casa municipale, la sera d’una dimostrazione carnevalesca contro il sindaco». Il passaggio nell’altro emisfero sembra costituire il rovesciamento del mondo; l’utopia del «mondo alla rovescia» sembra in parte realizzarsi. «L’emisfero australe, in cui la fantasia popolare colloca gli uomini con la testa in giù e le navi coi pennoni e la chiglia in sotto, un altro sole un’altra luna e un’acqua di mare non più salata bensì “bona da bevar”, è macroscopicamente il ribaltamento di tutto ciò che è alto e in piedi, il boreale». L’Oceano avvicina e allontana le persone, fa nascere rancori e amicizie, rinnova maledizioni antiche e fonda nuove speranze. La nave è un microcosmo, con le sue gerarchie sociali, le sue diverse culture, le sue storie di vite diverse. Tutti raccontano, parlano, vogliono sapere, commentano, dicono ingiustizie antiche e speranze nuove. Avviene durante il viaggio la pubblica confessione dei peccati, il male viene denunciato ed esorcizzato: altri elementi che fanno pensare a un viaggio purificatore, a un viaggio di espiazione. Ed è la lunga «immersione» nell’acqua «nera e profonda», il tuffo prolungato nell’immenso Oceano, la traversata dolorosa e faticosa di quasi un mese a rappresentare la rottura dei legami antichi e la preparazione per entrare in un mondo nuovo. È già nuova vita, il viaggio.
Anche la sfera alimentare non sfugge a questa metafora. Chi viaggia, chi compie un rito di passaggio deve sottoporsi a un regime alimentare particolare, spesso non deve toccare cibo: l’emigrante dei canti deve accontentarsi di qualche «erba amara» o restare digiuno per tre giorni. Anche il cibo che gli emigranti mangiano sul Galileo è pessimo, a differenza di quello riservato ai passeggeri di prima classe, la cui occupazione principale è conoscere il menu del giorno. Neanche a Karl, il protagonista del romanzo giovanile incompiuto di Kafka America, va molto meglio: durante il viaggio non ha fame, la minestra che distribuiscono sulla nave è insufficiente e il salame, regalo della madre, gli viene sottratto con la valigia in cui lo conservava.
Il viaggio in America esorbita radicalmente i limiti del viaggio contadino tradizionale, scardina le linee dell’antico cerchio, l’acqua del mare travolge gli argini delle secolari dighe circolari. Dal viaggio in America non si torna indietro. Chi torna non è più quello di prima. Chi parte in America sposta se stesso e non può più riportarsi interamente indietro. Quanti emigrati, nella cabina di una nave, soli, smarriti, lontani dal campanile del paese, hanno vissuto il momento più strano della propria vita! Quanti in America si sono sentiti estranei a sé stessi, hanno sentito la propria vita sfuggire come quella di un fantasma e hanno capito in un attimo di essere diventati qualcun altro. In quali «strani pomeriggi rossi», secondo l’espressione di Kerouac, d’America avranno deciso che non potevano tornare indietro, avranno pensato di «perdersi» lasciando tutto, casa, moglie, terra, per guardare verso l’Ovest del proprio futuro! L’emigrazione come dispersione, dissipazione, separazione, dissoluzione, lacerazione, frantumazione dell’io-emigrante e del paese, che si ferma e si sposta.
Penso che parlare del «sangue del Sud» comporti decostruire sia le esasperate retoriche risorgimentali che le retoriche recenti di un’anti-storia del Risorgimento e del brigantaggio che non si accorge che eventi e simboli devono essere inseriti in una vicenda complessa, contraddittoria, di lunga durata. Il sangue del Sud non è solo quello dei briganti, ma anche quello delle loro vittime, e ancora prima dei giacobini e dei patrioti antiborbonici, e solo dopo sarà il «sangue degli emigranti», espressione ricorrente e fortunata presso tanta letteratura dell’emigrazione, e quindi il sangue dei contadini uccisi – prima, durante e dopo il periodo fascista – mentre chiedevano terra, pane e libertà. Il sangue dei contadini di Melissa e di Portella della Ginestra e di altre aree del Sud, degli emigrati morti nelle miniere del Belgio (si pensi a Marcinelle) e di ogni parte del mondo, dei «Cristi fra i muratori» meridionali, morti per fondare case e mondi nuovi. Se vogliamo arrivare a oggi, il sangue delle migliaia di vittime per mano della ’ndrangheta e delle mafie, con le complicità e le collusioni di gruppi politici ed economici.
L’emigrazione, viaggio nel tempo e nello spazio, provvisorio o definitivo, con o senza ritorno, modifica profondamente l’economia, la società, la cultura, la struttura mentale del mondo contadino tradizionale. Il carattere rigenerativo dell’emigrazione, di rinascita e di resurrezione, viene segnalato a fine Ottocento e inizio Novecento, sia pure con argomentazioni diverse e con finalità differenti, sia dai meridionalisti che dagli antropologi positivisti. Gaetano Salvemini e Giuseppe Sergi, da posizioni diverse, indicano nella mescolanza delle genti d’Italia una possibile via per la rinascita e la resurrezione delle popolazioni meridionali. Non è senza significato che proprio gli atroci latifondisti, come scrive Salvemini, la borghesia parassitaria, i grandi proprietari che avevano ostacolato, inizialmente, il processo unitario, adesso scorgessero nell’emigrazione il male, qualcosa che alla lunga avrebbe eroso i loro privilegi e le rendite. Pure in una cornice ideologica razziale, Giuseppe Sergi ne «Il Pensiero contemporaneo» del 1899 propone la «mescolanza delle stirpi» utile da un punto di vista biologico e sociale. Poiché il governo «dissangua le popolazioni col fiscalismo e con le spese di guerra», occorre che le popolazioni facciano da sé, si uniscano, creino scambi e collaborazione. L’emigrazione all’estero, secondo Sergi, non fa altro che confermare la degenerazione e la stanchezza delle nazioni latine (senza fare qui distinzioni tra Nord e Sud) e tuttavia auspica una sorta di utopia che possa rigenerare le popolazioni in decadenza. Sarà Napoleone Colajanni, tra il 1903 e il 1906, a mostrare come l’Italia, vista in casa propria, all’estero e nelle colonie, dimostra invece un «risorgimento e l’ascensione relativamente rapidi» delle popolazioni meridionali e italiane. Gioacchino Volpe, uno storico originale che, pur aderendo al fascismo, avvia la moderna storiografia italiana, con considerazioni che conservano ancora attualità dal 1927, nel famoso L’Italia in cammino segnalava i frutti positivi dell’emigrazione sia in patria che all’estero: aumento dei salari, attenuarsi delle distanze sociali e fine dell’altezzosità dei galantuomini, diminuzione della delinquenza, erosione del latifondo, riduzione dell’usura, maggiori iniziative dal basso, migliore tenore di vita, amore per l’istruzione dei ceti popolari: insomma una «una vera rivoluzione, quali in altri tempi si era compiuta lentissimamente», una rivoluzione benefica per tutti e anche per i proprietari più capaci, che chiedono danari a credito ai reduci d’America. Segnalando anche un maggior livellamento tra Nord e Sud e il miglioramento delle bilancia finanziaria italiana per via delle rimesse, che davano nuovo impulso all’esportazione di merci e derrate, parallela all’esportazione di uomini, Volpe si domanda e ci domanda: «Non era, tutto questo, un nuovo e più sostanzioso “Risorgimento” anche per le masse, anche per il Mezzogiorno?».
Si realizzava un maggiore contatto «spirituale» dei contadini con l’Italia, sentita, desiderata in terra d’esilio come mai prima d’allora. Certo, lontano dal mondo di origine gli abitanti di luoghi isolati da «paesani» diventavano «calabresi», «meridionali», «italiani». Storie di sacrifici, dolore, di lacrime, desiderio di libertà e di un mondo migliore, amore per l’istruzione, rinascite, mescolanze e scambi hanno visto come protagonisti i ceti popolari. Nessun separatismo leghista e nessuna retorica identitaria e localistica potranno cancellare una storia di «diversità» e di «unità», di legami e di rapporti, tra popolazioni del Nord e popolazioni del Sud. Il Risorgimento voluto e scelto, spesso per necessità, dai ceti popolari, appare più democratico, più convinto, difficilmente cancellabile.
Se per molti motivi, come abbiamo visto, l’emigrazione costituisce un equivalente critico e problematico della morte, i rapporti tra rimasti e partiti – i loro controversi legami di odio e amore, di attrazione e repulsione – sembrano riproporre, in forme nuove, le dinamiche tra vivi e defunti proprie delle società tradizionali. L’emigrante – amato e atteso, ricordato con affetto – viene guardato anche con diffidenza e con sospetto, con premura e con paura. Viene vissuto come un defunto che può tornare, però, senza turbare. L’emigrante è un vivente che è morto per la società di origine: è, in fondo, un vampiro. Il vampiro vive senza sentirsi vivo. L’emigrato conosce l’esperienza di vivere senza sentirsi vivo. Il vampiro vive in una bara e se si trasferisce deve disporre di bare contenenti un po’ di terra del luogo di origine. L’emigrato – quando vive una condizione melanconica e di lutto prolungato, quando non ha saputo uccidere il paese lasciato – abita il nuovo mondo come in una bara. Per poter continuare a vivere quella che considera una «non vita» ha bisogno della terra, del cibo, di quanto lo riporta (o così immagina) al mondo di origine: deve illudersi di poter ricostruire il paese altrove. Il vampiro, che ha nostalgia della vita e ritorna, teme tutto ciò che lo allontana dalla propria terra, dal Castello dove può continuare a dominare. L’emigrato, all’inizio, teme i mutamenti, ha paura di perdersi, tenta di conservare il paese e di portarlo con sé. Anche gli immigrati clandestini scampati al crollo delle Due Torri sono ombre senza nome, senza storie, ci sono, ma non si sa chi siano. Il vampiro è metafora dell’esule e dello straniero che cerca accoglienza e perturba, che viene tollerato o allontanato, raramente compreso e accolto.
C’è una differenza sostanziale. Il vampiro, nonostante le sue innumerevoli trasformazioni, per la sua stessa costituzione non riacquista mai una nuova vita, resta un non morto. L’emigrato attua separazioni e ricongiungimenti, muore e rinasce, acquista, inventa una nuova ombra. Nel film Volver (2006) di Pedro Almodóvar, sono gli immigrati a prendere il posto dei morti che ritornano. Romolo Runcini, in un’intervista, ha affermato che il vampiro contemporaneo rappresenta «l’alieno, il diverso, l’emigrato straniero che vive in mezzo a noi».
In un breve saggio, Hanif Kureishi sottolinea con alcune efficaci immagini la stessa metafora, in cui il migrante diviene la più contemporanea delle riedizioni del Nemico terrificante da odiare, subdolo e familiare a un tempo, di cui l’Occidente sembra avere tanto bisogno. Il migrante viene identificato con l’alieno, con lo zombie: «è un paradigma del morto vivente, che invade, colonizza e contamina: una figura che non riusciamo né a digerire né a vomitare». La potenza di questa allucinazione collettiva sta nel fatto che fa parte di noi stessi, come nel caso del «paranoico che si guarda freneticamente intorno ma non si accorge mai che il corpo estraneo è già dentro di lui». Una fantasia che riduce il mondo a un film horror, che ci impedisce di ascoltare, di vedere la verità sul nostro conto che l’altro potrebbe rivelarci.
Ho visto nell’ultimo decennio carrette del mare, partite dall’Albania o dalla Turchia, giungere in Calabria, lungo la costa jonica, lungo i tratti che portano da Roccella a Badolato, da Soverato a Crotone, e a Lampedusa, partite dall’Africa cariche di ombre, spettri, figure di erranti che non sanno dove arriveranno e che cercano un’isola felice che non c’è, un Eden inesistente inventato dai media. Li ho visti accogliere con solidarietà come si fa con i bisognosi. Ma ho visto anche come, col tempo, quelle ombre che arrivano nella notte, come vampiri, figure inquiete, revenants emaciati, creino inquietudine e disagio, preoccupazione e incertezza. Sono gli abitanti dei luoghi di arrivo che manifestano spesso paura di essere divorati, inghiottiti, di perdere la loro identità, le loro certezze. Gli immigrati, respinti come revenants inquietanti, fatti scivolare nel campo semantico del «pericoloso» e dell’«ostile», raccontano la nostra incapacità di fare i conti con la diversità, ci dicono la fragilità delle nostre certezze.
I profughi ammucchiati sulle carrette del mare sono «non vivi» e «non morti». Le barche, grandi bare che navigano sull’acqua, vengono ammassate sull’isola di Lampedusa o sui moli delle coste calabresi, andando a formare dei cimiteri postmoderni. Di recente, ho ritrovato la capacità di raccontare quest’isola-mondo, questo luogo metafora di un’umanità che fugge senza meta precisa, senza direzione certa, affrontando il mare aperto e la morte nel bel romanzo di Davide Enia, Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017). Con sguardo partecipato, dolente, penetrante, sofferto – che non diventa mai lamentela patetica o rassegnazione – su vita e morte di chi «attraversa» (quasi per fondare un mondo nuovo), l’autore trasmette il senso di un’urgenza interiore di anticipare storie, vissuti, sentimenti, voci di quanti, superstiti e sopravvissuti, che tra anni useranno «le parole esatte per descrivere cosa significa approdare sulla terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria, inseguendo il sogno di una vita migliore. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi». Con questa storia lunga e imprevedibile di arrivi, fughe, esodi, passaggi, nascerà allora una nuova antropologia del sé, del noi, degli altri, di noi-altri, degli altri-noi.
N.B. Nel testo non ci sono le note e i riferimenti bibliografici che sono invece riportati nel libro. La foto principale dell’articolo è un’immagine contenuta nel libro e tratta dal film “Vampyr – Der Traum des Allan Grey” del 1932 diretto da Carl Theodor Dreyer.
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