SALERNO La maxi-inchiesta “Why not” è stata un calderone che ha tirato in ballo poteri forti, magistratura, non ultima la stampa che è stata spesso strumento, più o meno consapevole, nelle mani delle proprie fonti.
Antiche, ma non troppo, le vicende lametine e catanzaresi tornano alla ribalta con una recente condanna per diffamazione emessa dal Tribunale di Salerno. Spiccano tra i condannati due personaggi noti: Gioacchino Genchi (foto), 58 anni, consulente informatico assurto agli onori della cronaca per avere lavorato a fianco dell’allora sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De Magistris nell’inchiesta “Why Not” e Aldo Vincenzo Pecora, 33 anni, oggi come allora presidente del movimento “Ammazzateci tutti”, nato a Locri il giorno dopo l’omicidio del vicepresidente del consiglio regionale, Francesco Fortugno. Il processo per diffamazione nasce da una querela che il magistrato, ora in pensione, Salvatore Murone, aveva sporto nei confronti degli imputati a causa di due distinti articoli, ripresi da Pecora e Genchi da altri blog, che contenevano, secondo gli accertamenti compiuti dal Tribunale, informazioni false e diffamatorie nei confronti del magistrato.
IPOTESI DI COMPLOTTO E LA FALSA PARENTELA CON MAZZEI Uno degli articoli si intitola “Ipotesi di complotto contro il magistrato Antimafia Manzini. Due le piste: Murone e Pittelli”. Questo articolo è stato ripreso dal blog “Ammazzateci tutti” di Aldo Pecora l’8 aprile 2009. Da pochi giorni il pm Marisa Manzini, allora sostituto procuratore alla Dda di Catanzaro, aveva fatto arrestare l’imprenditore lametino Salvatore Mazzei, allora titolare di una famosa cava di inerti, un gigantesco squarcio in una montagna oggetto di numerosi procedimenti. L’accusa non riguardava la cava ma lavori sulla Salerno Reggio Calabria. Qualche tempo prima la Manzini, oggi procuratore aggiunto a Cosenza, era stata oggetto di una interrogazione parlamentare da parte del senatore Giuseppe Menardi, di Cuneo, nella quale si affermava che il magistrato avesse comprato una villa a Lamezia Terme proprio da Mazzei. A questo punto il senatore interroga l’allora ministro Alfano chiedendo se il magistrato, che fino al 2003 era stato sostituto procuratore a Lamezia per poi passare alla Dda, avesse effettuato indagini nei confronti di Mazzei magari omettendo di segnalare la circostanza dell’acquisto della villa ai superiori. Ispiratore di questa interrogazione parlamentare, secondo quanto riportato dal blog, sarebbe stato l’allora procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone, indicato quale cognato di Mazzei. Murone, quindi, avrebbe cercato di screditare la Manzini per salvaguardare Mazzei. Ma Murone non ha nessuna parentela con Salvatore Mazzei. Il giudice ha due cognati, fratelli della moglie, che si chiamano Ruberto. Né Murone è l’ispiratore di alcuna interrogazione parlamentare, come accertato dal Tribunale di Salerno. Tra l’altro, sentita dai magistrati di Salerno in un procedimento aperto nei suoi confronti e di altri magistrati e avvocati, nel 2008, la Manzini affermò di abitare in quella casa con la famiglia ma che la casa era stata acquistata ed era formalmente intestata al fratello del marito, dipendente delle Ferrovie dello Stato. Il caso, comunque, è stato archiviato senza avere alcun seguito.
CIAK SI GIRA Il secondo articolo si intitola “Ciak, si gira, Gioacchino Genchi, migliore attore non protagonista”, risale al 16 ottobre 2010 ed è stato ripreso dal blog “Legittima difesa” dell’ex perito informatico di De Magistris all’epoca dell’inchiesta “Why not”. Secondo l’accusa nell’articolo, che richiamava in alcuni punti il libro di Edoardo Montolli “Il caso Genchi: Storia di un uomo in balia dello Stato”, «veniva sostanzialmente sostenuto – è scritto nel capo di imputazione – che il Murone aveva contatti con la mafia». Tre i punti a supporto di questa tesi.
Il primo: quando era presidente del collegio giudicante che ha assolto Francesco Iannazzo per l’omicidio dell’avvocato Torquato Ciriaco (avvenuto nel 2002), Murone due mesi prima della sentenza, è scritto nel blog, avrebbe sentito al telefono (telefono di casa) il cugino dell’imputato, il boss Vincenzino Iannazzo. È stato affermato in aula che la telefonata è avvenuta tra due ragazzini, compagni di classe alle scuole medie. Il processo sulla morte dell’avvocato Ciriaco non è stato mai di competenza del Tribunale di Lamezia Terme, in cui Murone era presidente, ma è stato istruito dalla Dda dinanzi alla Corte d’assise di Catanzaro e con altri imputati perché Francesco Iannazzo non è stato mai indagato per questo omicidio. Il procedimento si trova oggi in appello dove, a rispondere dell’omicidio ci sono il collaboratore di giustizia Francesco Michienzi (che si è autoaccusato di avere partecipato al delitto), Tommaso Anello e i fratelli Vincenzino e Giuseppe Fruci. In primo grado sono stati tutti assolti per non aver commesso il fatto, in appello verrà riaperto il dibattimento.
Il secondo: nel blog si afferma inoltre, si legge nell’imputazione, «che secondo il Murone (all’epoca procuratore aggiunto a Catanzaro, ndr) l’omicidio di Antonio Longo (titolare della Tecnovese) non era un omicidio a sfondo mafioso e che non se ne doveva occupare la Dda». In realtà – è stato anche chiarito nel processo per diffamazione – essendo l’omicidio dell’imprenditore avvenuto il 24 marzo 2008, a metà strada tra Lamezia Terme e Catanzaro, sul posto si sono recati sia il magistrato della Dda che quello della Procura di Lamezia. I primi rilievi sono stati svolti, come di consueto, dalla Procura di Lamezia, poi il fascicolo è passato alla Dda che ha proseguito con le indagini.
Terzo: si fanno, infine, riferimenti all’omicidio del sovrintendente di Polizia Salvatore Aversa e di sua moglie Lucia Precenzano, uccisi a Lamezia il 4 gennaio 1992. All’epoca le indagini portarono all’arresto di Giuseppe Rizzardi e Renato Molinaro, pregiudicati, accusati dall’ex fidanzata di Molinaro, Rosetta Cerminara. Una storiaccia che si concluse con l’assoluzione dei due imputati e un bello scandalo per quella super testimone con tanto di medaglia al valor civile appuntata al petto prima ancora di arrivare al terzo grado di giudizio. La verità arriva nel 2000 con la confessione di due collaboratori di giustizia della Sacra corona unita pugliese, Stefano Speciale e Salvatore Chirico che confessarono il delitto commesso per conto delle cosche lametine capeggiate dai Giampà. Le indagini si rivelarono un vero scandalo.
Ma nell’articolo è scritto che all’epoca «il pm è Mariano Lombardi. Il sostituto Salvatore Murone». Ma Murone all’epoca era sostituto procuratore generale alla corte d’appello, non ha condotto nessuna indagine, non ha fatto alcuna attività istruttoria. All’epoca procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro era Mariano Lombardi e sostituto procuratore nella Dda era Adelchi D’Ippolito che nel corso del dibattimento lasciò e chiese il trasferimento «per motivi di sicurezza». In primo grado i due imputati vennero condannati. Le difese fecero appello e l’accusa, in secondo grado, era retta da Murone, allora pg. Tra l’altro, in secondo grado, non c’è stato nessun rinnovo dell’istruttoria, né è stata risentita la Cerminara.
Un lungo processo, questo per diffamazione, che ha ricostruito un pezzo di storia della magistratura calabrese e che si è concluso con la condanna di Genchi e Pecora e con il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno per avere riportato notizie non veritiere e averle ospitate e lasciate nei propri blog (articoli che oggi sono stati rimossi). Tra 90 giorni si conosceranno le ragioni del Tribunale.
Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it
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