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RINASCITA | Quattro omicidi riconducibili ad alcuni indagati

Tra i vari capi d’imputazione spiccano in tutto 7 “fatti di sangue”, compresi 3 tentati omicidi, consumati tra il 1996 ed il 2017. Le cause sono trasversali agli interessi dei clan, da dissidi in o…

Pubblicato il: 19/12/2019 – 13:40
RINASCITA | Quattro omicidi riconducibili ad alcuni indagati

CATANZARO Tra i vari capi d’imputazione dell’inchiesta della Dda di Catanzaro che dalle prime luci di questa mattina scuote il Vibonese, vi sono anche 7 episodi, tra omicidi e tentati omicidi, consumati nel periodo tra il 1996 ed il 2017.
Degli omicidi di Antonio Lo Giudice e di Roberto Soriano, uccisi a Filandari (VV) il 6 agosto 1996, sono accusati Saverio Razionale e Giuseppe Antonio Accorinti, in concorso con altre persone non identificate. Il duplice omicidio sarebbe stato deciso da Razionale in risposta ad un tentativo di omicidio subito ad opera di Soriano, derivante da dissidi insorti tra il presunto mandante e Giuseppe Mancuso, detto “Mbrogghia”. Dell’omicidio di Nicola Lo Bianco, ucciso a Vibo Valentia il 3 maggio 1997, è accusato Gianfranco Ferrante, in concorso con altre persone. Il movente sarebbe da ricondurre a dissidi in ordine al narcotraffico. L’omicidio di Alfredo Cracolici , indicato come esponente apicale dell’omonima ‘ndrina, detto “Lele Palermo”, avvenuto a Vallelunga (VV) l’8 febbraio 2002, sarebbe invece opera di Antonio Ierulo e Domenico Bonavota, nell’ambito di una strategia espansionistica della cosca Bonavota. I tentati omicidi di Antonio Franzè e Carmelo Pugliese, avvenuti a Vibo Valentia, rispettivamente il 27 ed il 28 settembre 2017, sarebbero opera di Domenico Macrì, detto “Mommo”. Entrambi gli episodi sono stati ricondotti ad uno scontro interno alla “locale” di Vibo Valentia città tra esponenti delle ‘ndrine dei Ranisi e dei Cassarola, alimentato dal tentativo di Macrì (appartenente ai Ranisi), di assurgere ad un ruolo verticistico. Il tentato omicidio di Alessandro Sicari, avvenuto a Vibo Valentia il 21 gennaio 2018, è infine attribuito a Domenico Macrì e Marco Ferraro che volevano punire la vittima, legata allo stesso contesto criminale, per il furto di una pistola.

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