«Le regioni fanno troppe cose e male; il servizio sanitario deve essere nazionale», così titolava una intervista al prof. Sabino Cassese nella giornata di ieri. Una intervista chiara nei contenuti e lucida nelle prospettive dell’analisi svolta a supporto di una tesi che, se da una parte spaziava a tutto campo sui compiti delle regioni, dall’altra giungeva fino a interrogarsi sullo stesso quadro istituzionale necessario a rimuovere la ‘precarietà degli esecutivi (nazionale e locali). In questo modo veniva posta la stessa questione della governabilità nell’ambito di materie oggettivamente complesse rispetto al riparto che ne ha fatto il legislatore di revisione costituzionale (nel 2001) fra ‘competenze esclusive’ dello Stato, ‘competenze concorrenti delle regioni’, ‘competenze residuali delle regioni’. Il lettore ci vorrà scusare per questi richiami del vocabolario costituzionale, che naturalmente risultavano necessari ai fini di quanto si dirà in seguito. Un riparto – quest’ultimo – che risulterebbe incomprensibile ai più se non si aggiungesse immediatamente che una simile tecnica costituzionale di distribuzione fra centro e periferie dei poteri legislativi, mutuata sostanzialmente dalle esperienze federali, rispondeva (al momento della sua progettazione costituzionale) ad una strategia istituzionale volta a farsi carico di un obiettivo di avvicinamento dei compiti statali alle amministrazioni territoriali più prossime al cittadino e in tale ottica di valorizzazione dell’apporto regionale e locale. Eleggendone (direttamente) i relativi funzionari politici e i vertici di governo, questi ultimi avrebbero potuto, in tal modo, assicurare una più congrua partecipazione politica alla formazione della legislazione che sarebbe stata chiamata a soddisfare i loro fabbisogni.
La questione centrale che si vuole ora evidenziare, tuttavia, non è tanto quella (di tipo funzionalistico) individuabile nella concreta attuazione del principio di sussidiarietà, e della relativa distribuzione delle competenze fra il centro e la periferia, quanto piuttosto di interrogarsi sul tipo di relazioni che devono sussistere fra funzioni pubbliche e garanzia concreta (della effettività) dei diritti del cittadino. Diritti che, nel caso della salute (e lo stesso potrebbe dirsi per il diritto allo studio e il relativo digital divide), tutti siamo oggi nelle condizioni concrete di capire quanto profondamente rilevino nel connotare la effettività democratica di uno Stato sociale. Uno Stato che, per essere rispettoso dei principi fondamentali sanciti nelle disposizioni costituzionali (in particolare negli artt. 2 e 3 che fissano le basi costituzionali sul trinomio dignità-solidarietà-eguaglianza) deve assicurare a tutti i soggetti (cittadini ma non solo) l’ampio catalogo di diritti fondamentali accolti nella prima parte della Costituzione repubblicana, compresa l’eguaglianza interterritoriale fra i soggetti.
In un quadro giuridico nel quale il diritto alla salute risulta pienamente garantito se le pretese prestazionali sanitarie del soggetto (di tipo preventivo, curativo e riabilitativo, secondo le previsioni della legge 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) rivolte alle amministrazioni competenti ad erogare i relativi servizi di assistenza sono pienamente assicurate, parlare di effettività del diritto fondamentale alla salute impone di avere ben chiara la distribuzione delle competenze (e delle connesse responsabilità) fra i diversi livelli istituzionali della Repubblica (centro statale e periferia regionale). Una distribuzione delle competenze – quest’ultima – che è funzione della stessa chiarezza nell’allocazione costituzionale delle competenze e nella stessa gerarchia delle responsabilità in ciò che per la Costituzione è fondamentale. Una mal definita ripartizione delle stesse – questo è quanto il coronavirus ha ora portato in bella evidenza agli occhi di cittadini increduli e impauriti e degli stessi esperti del regionalismo – comporta incertezze e rischi di confusione, foriere di irresponsabilità oggettive delle amministrazioni competenti.
Ora quando si parla di compiti regionali in materia sanitaria, siamo chiamati a pensare soprattutto alle forme di protezione della salute e alla distribuzione dei poteri in materia fra Stato e regioni (che come abbiamo visto in questi giorni risulta incerta e ‘confusa’), non dimenticando le competenze dell’OMS, da una parte, e quelle delle autorità locali, dall’altra, con l’esercizio del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti da parte dei sindaci.
Quanto osservato fin qui, tuttavia, può interessare il giurista ma poco (o perfino nulla) il cittadino al momento di chiedersi chi fa che cosa con riguardo alla tutela della sua salute al momento che quest’ultima venga meno (in modo più o meno grave) ma soprattutto al momento in cui la salute, non più solo la sua (di singolo cittadino) ma quella della intera collettività (la salute pubblica appunto) venga riguardata da un grave attacco epidemiologico, come il Paese sta oggi sperimentando.
Una simile riflessione deve essere capace di individuare i nodi più significativi che la cronaca di questi giorni ha sottoposto con sofferenza alla conoscenza di tutto il Paese. E tali nodi, nel momento in cui scriviamo, non riguardano principalmente il tema delle responsabilità quanto piuttosto quello individuabile nella confusione dei poteri che il Paese ha avuto modo di conoscere al momento di interrogarsi sulla spettanza delle competenze di adottare piani anti-epidemici e di protezione della salute pubblica a valle di indicazioni di morbilità virale pervenute dall’OMS e al momento di interrogarsi sulla spettanza della competenza in tema di acquisizione dei fondamentali presidi (soprattutto ventilatori polmonari ma più in generale tutti i presidi sanitari e farmacologici che la scienza medica dichiara essere assolutamente necessari per le finalità di contrasto della pandemia oltre che per la salute individuale) la cui carenza è risultata pari alla loro necessarietà e indefettibilità da parte dei diversi presidi ospedalieri soprattutto (ma non solo) nell’area lombardo-veneta del Paese. La distribuzione asimmetrica di tali supporti e della intera organizzazione sanitaria fra le regioni del nord e quelle del sud, in una simile prospettiva, costituisce un vero e proprio ‘scandalo’ insopportabile in un Paese che si definisce ‘unitario’ da 160 anni a questa parte, e ‘sociale’ a partire dalla Costituzione repubblicana.
La questione come si può cogliere non è di poco momento avendo concreto riguardo (talora o spesso) al venire meno – non solo di una ordinaria adeguatezza delle funzione sanitaria e assistenziale da parte del sistema sanitario regionale – di una necessaria funzione programmatoria nella organizzazione del servizio di prevenzione a livello di rapporti fra Ministero della salute, ISS e sistema regionale.
Alla luce di quanto sopra richiamato, dobbiamo segnalare come il criterio da seguire nell’atteso e necessario riordino delle competenze del complesso ordinamento Stato-regioni non potrà che favorire il livello statale ogni qualvolta il livello del bene giuridico meritevole di protezione – il diritto fondamentale – riguardi un ambito eminentemente generale e per questo di ambito statale.
Ripensare il regionalismo non sarà facile con i tanti governatori Presidenti di Giunta regionale che si sono assimilati inappropriatamente ai capi di Governo, ma la ‘fondamentalità’ dei diritti fondamentali non potrà continuare a sottacere le significative problematiche della loro effettività i cui limiti anche (ma non solo) in questi giorni sono sotto gli occhi di tutti. Dalla prospettiva meridionale in modo non meno complesso e problematico che da quello, attualmente più doloroso, della frontiera del Nord-Est del Paese. Come si può ben osservare, pertanto, non è una questione limitata ai dolorosi giorni che stiamo vivendo.
Seguendo il criterio di cui si è già detto (e come sottolineano, tra i tanti, il prof. Cassese e la ex Ministra on. Bindi), il Servizio Sanitario ‘deve essere nazionale’ e non può essere regionale. Le regioni non potevano essere immaginate come il livello più adeguato a farsi carico di servizi pubblici all’altezza della uguaglianza dei cittadini. Averlo pensato e praticato in una revisione costituzionale (quella del 2001) si è rivelato assolutamente inadeguato rispetto alla sfida della complessità e alla esigenza di garantire in modo effettivo beni indefettibili in democrazia, come l’eguaglianza di tutti in ciò che è fondamentale. E i diritti fondamentali (e fra essi la salute) tali sono nell’inquadramento che ne fa la Costituzione.
Il criterio da seguire nella manutenzione costituzionale non potrà che favorire il livello decisionale statale ogni qualvolta il livello del bene (giuridico) costituzionale meritevole di protezione – il diritto fondamentale nella sua dimensione collettiva – riguardi un ambito eminentemente generale e per questo di ambito statale, in virtù di una clausola che in tutte le democrazie si chiama comunemente “clausola di supremazia”.
La situazione emergenziale in essere, in conclusione ci pare di poter evidenziare, consegna una visione plastica di ciò che è la situazione ordinaria … una situazione che (in special modo per le regioni del Sud del Paese) è perennemente in piena emergenza. Si impone alla classe politica una attenta valutazione delle ‘priorità costituzionali’, e la salute, così come l’istruzione, devono avere (perché le hanno per Costituzione) una prevalenza sulle logiche di puro mercato. E tanto anche per non squalificare come una mera petitio principii quella affermazione argomentata in una recente sentenza della Corte costituzionale, per la quale «è la garanzia incomprimibile [dei diritti sociali fondamentali] ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».
Ugo Adamo, Silvio Gambino e Walter Nocito
Costituzionalisti, docenti Unical
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