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«Immagini, Mitologie e Realtà della Calabria»
di Vito Teti*
Pubblicato il: 21/08/2020 – 19:28
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Ammetto che, nel paese in cui prevalentemente vivo, per caso e per scelta, e che amo, a volte o spesso mi sento un esule, uno straniero e mi chiedo “che ci faccio qui”. Forse la vocazione dell’intellettuale è quella di sentirsi sempre fuori posto, fuori luogo, alla ricerca del mondo migliore. Forse, i nostri paesi, dopo decenni di abbandono, di emigrazione, di spopolamento, si sono stancati e arresi e i loro abitanti, invece di abbandonare le antiche ombre e di inventare una nuova comunità, hanno fatto emergere il lato peggiore dei paesi. Ed è per questo che l’altra sera, mentre dialogavamo con Nicola Gratteri, di bellezze, cura, amore e legalità, vedendo, per due ore e mezzo, un pubblico, numeroso e rispettoso delle norme anti Covid-19 (grazie a una impeccabile e meticolosa organizzazione dell’Amministrazione comunale, che ringrazio per avermi invitato a questa iniziativa, nell’ambito di una serie di incontri con rappresentanti dello Stato e della Chiesa che hanno contrastato la criminalità), attento, silenzioso, partecipe, che applaudiva quando era necessario senza sterili tifoserie, è per questo, dicevo, che mi sono riconciliato, almeno in quelle ore, con il luogo, con me stesso, e ho sentito, nell’aria, e nel cuore, lo sguardo delle persone che negli anni ho visto, incontrato e amato nelle situazioni più diverse: giochi serenate feste lutti comizi iniziative culturali incontri di amore. In una piazza che, con i suoi balconi pieni, almeno d’estate, torna ade essere un teatro di vita e di incontri. Lontano da ogni retorica delle glorie locali, ho sentito tutto l’orgoglio di appartenere a una comunità con una storia di gente che ha faticato e ha penato, si è inventata mille mestieri e si è recata in tutte le città del mondo: una comunità di contadini, artigiani, musicanti, ciucciai, erranti, emigranti che ha cercato sempre di rendere più abitabile e migliore il mondo che ha ereditato. Ho sentito – e l’ho detto – l’orgoglio di essere nato nel paese delle Congreghe e dei Carnevali, nel paese in cui nel 1635 un religioso e uomo di diritto e di lettere, Gian Giacomo Martini, riuscì, grazie a due tipografi itineranti, a dare alle stampe, il primo libro delle attuali province di Vibo Valentia e Catanzaro. Nel paese, dove due secoli fa, nel 1820 nascevano Antonio e Graziano Garcea. Il secondo andato a morire, giovanissimo, per la libertà di Venezia, e il primo patriota, amico fraterno di Poerio, Settembrini, Nisco e dei maggiori esponenti del Risorgimento meridionali, che conobbero il carcere duro e la repressione dei Borbone. Quell’Antonio Garcea che sposò una delle prime “femministe” italiane, Giovanna Bertola, nata a Mondovì, che a Parma, all’indomani dell’unificazione nazionale, fondò la rivista “La voce delle donne”, in cui chiedeva diritto di voto e all’istruzione per le donne, insegnando e fondando poi, con il marito, scuole in tutte le parti d’Italia. Avrei voluto fare un lungo elenco di nomi e di storie “nobili” e “alte”, popolari, del paese, ma volevo soltanto ricordare che le vie per uscire da questa dolente situazione dei paesi del Sud sono quella della cultura, dei saperi, della scuola, della fatica, della pazienza, del “ritorno” alla terra, alla natura, alle relazioni che contano, alla comunità. E sarà stato perché le parole che venivano pronunciate e declinate, da ognuno con le proprie competenze, erano bellezza, cura, amore, responsabilità, senso del dovere con cui contrastare quanti vogliono distruggere paesaggi, economie, culture, sentimenti che, alla fine, giovani e ragazze, persone adulte e forestieri, gente venuta da fuori ed emigrati, con il loro abbraccio hanno voluto dire grazie a Nicola Gratteri. Anche con il loro ascolto silenzioso, partecipe, hanno rivelato il bisogno di giustizia, che è sentimento profondo, antico, come quello dei Campanella e degli Alvaro, che inveivano con i loro conterranei che lucravano sulle miserie e sulle sfortune degli ultimi. Una Giustizia uguale per tutti e che non può che essere desiderio di una vita normale, non prevaricata, fatta di garanzie e di libertà per tutti. Sarà perché non abbiamo recriminato, inveito, emesso sentenze, ma abbiamo voluto soltanto capire, dialogare, dire parole pensando al futuro dei giovani, che ho avvertito che, anche ad alcune scelte coraggiose, al sacrificio di tanti, qualcosa sta cambiando anche in quella provincia di Vibo Valentia, una delle più belle, colte, ricche, variegate di tutta Italia, che, purtroppo, negli ultimi decenni è stata l’ultima per qualità della vita e ai primi posti per la presenza criminale e per una inquietante commistione tra “politica”, criminalità, massoneria, e anche mondo dell’impresa e delle professioni. Abbiamo detto che la colpa è di tanti, ma che nessuno può chiamarsi fuori. Ognuno può fare la propria parte, senza dare sempre la colpa agli altri (del passato e di oggi). Abbiamo detto che non esiste una criminalità buona del passato e una criminalità cattiva dell’oggi, che non c’è alcun legame tra brigantaggio-rivolte popolari e criminalità, e che non è vero che la criminalità crei lavoro ed opportunità, ma mortifica invece i sogni, le speranze, il futuro dei giovani delle comunità. Bisogna decostruire le false mitologie criminali del passato e del presente. Con studi, ricerche, buone pratiche, scuole e ospedali che funzionano, servizi ai cittadine, Musei, Biblioteche, Centri di ricerca. Chi mi conosce sa che non eccedo in ottimismo e in enfasi, che non amo autoconsolazioni e autoesaltazioni, due grandi mali della nostra terra, chi mi legge sa che, da anni, denuncio, assieme a tanti altri, il degrado e la devastazione del paesaggio, delle culture, delle menti, dell’anima delle persone, eppure, l’altra sera, con i miei compaesani, con Gratteri e Albanese (i giornali locali, da “Il Quotidiano del Sud” che oggi ha pubblicato due pagine a “Il Vibonese” ecc.) hanno dato ampio spazio ai loro discorsi e allo spirito della serata) con tante forze dell’ordine, con molti giovani, ho pensato che non tutto è accaduto, che qualcosa è possibile fare, che bisogna riprendere a parlare di lavoro, di scuola, messa in sicurezza del territorio, tutela del paesaggio, necessità di sapere e comprendere, di complessità e di cose semplici, di piccole utopie possibili. Vedo, pure tra tante confusioni, tra tante retoriche, incertezze, paura, sfiducia, tutte comprensibili, che, in tutta la regione, ci sono giovani, associazioni dal basso, gruppi di volontariato, movimenti ambientalisti, persone che investono su nuovi saperi e anche su antichi mestieri e prodotti (da rendere vivi nel presente) che stanno decidendo di costruire nuove comunità, di essere padrini del proprio futuro, di non consegnarsi a vecchi e a nuovi clan, a costruttori di slogan facili e di odi e rancori gratuiti, di non sopportare più che la terra più bella e generosa del mondo (pure con fragilità, contrasti, un passato difficile) debba essere considerata l’ultima, la più periferica, marginale, irrilevante. La Calabria vuole essere amata, per questo applaude e benedice parole di amore, per questo vuole amare.
*antropologo e docente universitario
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