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Marianna, la testimone di giustizia che sogna di tornare in Calabria da donna libera

Permise di condannare gli assassini dei suoi due fratelli a Crotone uccisi per mano della ‘ndrangheta a metà degli anni novanta. Abbandonata dallo Stato, con il libro “Testimone d’ingiustizia” racc…

Pubblicato il: 31/08/2020 – 13:54
Marianna, la testimone di giustizia che sogna di tornare in Calabria da donna libera

di Michele Presta
COSENZA Eccola lì, Marianna, seduta al banco dei testimoni. Evita di incrociare lo sguardo degli assassini dei suoi due fratelli. Il primo è morto perché è finito in brutto giro in cui c’è anche la ’ndrangheta crotonese, il secondo è stato fatto fuori perché i killer temevano ritorsioni. È una storia su pellicola quella di Marianna, a metà degli anni novanta, quando l’Italia masticava i rudimenti della legislazione antimafia e i testimoni di giustizia erano equiparati ai collaboratori. C’è una differenza, ed è abissale: i primi testimoniano con coraggio, i secondi testimoniano per aver salva la pelle. I redenti si contano sulle punte delle dita di una mano. È così, ma gli investigatori hanno bisogno di entrambi. Marianna appartiene alla categoria dei testimoni di giustizia, anzi dei «testimoni usa e getta» perché finito il processo, scritta la sentenza, sgominata una cosca, per lei e la sua famiglia inizia un calvario di promesse non mantenute e di una vita passata all’ombra di aver fatto la cosa giusta ma che non è adeguatamente riconosciuta. La sua storia è scritta dal giornalista Eugenio Arcidiacono, firma del settimanale Famiglia Cristiana, nel romanzo “Testimone di ingiustizia” edito da San Paolo. Il sottotitolo è ancora più eloquente “La mia vita di fantasma per aver denunciato la ’ndrangheta”. Marianna F. (il nome è di fantasia come i luoghi e le date riportati nel libro) si mette in contatto con il giornalista dopo che il 25 di dicembre del 2018, Marcello Bruzzese fratello di un pentito ’ndranghetista, venne ucciso nonostante il regime di protezione. «La questione dei testimoni di giustizia è stato il punto di partenza del libro, anzi dell’inchiesta – spiega Arcidiacono al Corriere della Calabria -. Marianna con i suoi familiari ha denunciato gli assassini dei suoi fratelli in Calabria. Lei ha deciso di rompere la spirale di violenza denunciando tutti. Lo ha fatto nonostante in quel momento vivesse a Parigi, facendo l’interprete. Era una donna realizzata che non aveva rapporti con la Calabria». È in quel momento che inizia un lungo calvario. «Negli anni a cui si riferiscono i fatti – spiega l’autore – i testimoni di giustizia erano equiparati ai collaboratori giustizia. Ha dovuto firmare un modulo in cui si impegnava a dichiarare che non avrebbe fatto più reati e dal momento in cui ha raccontato quello che avevano fatto ai suoi fratelli è stata costretta a trasferirsi in un paese sperduto di montagna e a perdere ogni diritto. Ha perso il lavoro, innanzitutto, le hanno dato una identità finta che non serviva a niente, ha perso l’assistenza sanitaria. I genitori anziani per qualsiasi motivo di natura medica dovevano andare in ospedale e dare delle generalità false e aspettare che qualcuno li curasse. I loro nomi e cognomi non esistevano più da nessuna parte».
TRADITA DALLO STATO Tra le pagine del libro si leggono le parole: testimone usa e getta. È così che si sente Marianna F. Le avevano promesso un posto di lavoro come interprete al Ministero dell’Interno ma anche questa promessa è sfumata. «Un lavoro adatto alle sue capacità non l’ha mai ricevuto – aggiunge Arcidiacono -. L’hanno assunta al Ministero dell’Interno e si è ritrovata a fare fotocopie. Una sentenza le ha riconosciuto un danno biologico causato sul posto di lavoro procurato dallo Stato». Mobbing, in poche parole e dunque la decisione di lasciare il programma di protezione. «Decide di lasciare per trovare un lavoro, anche se l’esponeva al rischio di essere individuata da chi in tribunale gli ha detto che l’avrebbe trovata. Con questa minaccia fortissima è uscita dal programma di protezione, ottenendo un risarcimento che le è servito per comprare la casa – dice Eugenio Arcidiacono -. Ha partecipato a dei concorsi ma lo stress psicologico e la paura di essere trovata erano più forti di lei. Trovare un lavoro seguendo la strada normale non era semplice, giustificare anni di vuoto da esperienze lavorative hanno fatto desistere ogni datore di lavoro».
L’EDUCAZIONE E GLI ANNI DELLE STRAGI Negli anni 90 Marianna è una donna che vive pienamente la sua vita. La laurea e il lavoro da interprete nella capitale francese la soddisfano di tutti i sacrifici fatti. La morte violenta piomba nella sua vita e decide di affrontarla con senso civico e alto rispetto delle istituzioni. «Ha vissuto l’epoca delle guerre di mafia condotte da Falcone e Borsellino – ci spiega l’aurore -. Si è appassionata molto a quel tipo di racconto che veniva fatto in Italia e si domandava come mai in Calabria non ci fosse lo stesso sentimento che invece si avvertiva in Sicilia. Lei ha fatto la sua parte, non avrebbe mai potuto vivere con il pensiero che gli assassini dei suoi fratelli si sarebbero potuti trovare ancora oggi in giro. L’educazione è stata fondamentale, ma non dobbiamo essere generalisti, è ovvio che vivere in un ambiente imbevuto di una certa mentalità non l’avrebbe aiutata. È per questo che dedichiamo il libro ai bambini calabresi perché, non siano costretti a lasciare la propria terra. Il sogno di Marianna è di ritornare in Calabria. Ha partecipato a degli incontri a scuola sotto falso nome e senza farsi riconoscere o ai campus di Libera al nord, ma non in Calabria. Nella sua terra vorrebbe ritornare da donna libera, usare la casa che ha ancora e dove ha vissuto con i suoi genitori e dove c’è ancora la tesi di laurea.
NEMMENO UN RIMPIANTO Vive a testa alta, non è complice di nessuno Marianna. «Non ha nessun rimpianto se non quello di essersi fidata troppo di quello che le avevano detto – prosegue Eugenio Arcidiacono -. Solo dopo tanto tempo ha deciso di contattare persone che vivevano come lei. I calabresi non fanno gruppo come i siciliani, e sul lavoro probabilmente se avesse fatto la voce grossa non si sarebbe ritrovata nella condizione in cui è adesso. Certo nel tempo sono cambiate molte cose. L’impulso dato dal procuratore Nicola Gratteri alla modifica della legge sui testimoni di giustizia e altri accorgimenti legislativi, adesso, non metterebbero nessuno nelle condizioni in cui si trova lei. Il problema è che queste leggi non sono retroattive ed aver abbandonato il programma di protezione non aiuta Marianna». Scrive a politici, ministri, altri funzionari di Stato ma la risposta è sempre negativa. «I testimoni dovrebbero essere più preziosi dei pentiti, perché se continuassero a vivere nella propria terra sarebbero la dimostrazione vivente che un altro mondo è possibile. Solo così si dimostra che lo Stato è più forte della ’ndrangheta».
LE MIE RADICI Eugenio Arcidiacono è per metà calabrese. Vive e lavora stabilmente a Milano ma aver prestato il proprio lavoro per raccontare questa storia ha smosso in lui un sentimento forte. «Per me è stato un riappropriarmi delle mie radici. Come tutti i mezzi calabresi, fin da bambino le estati le trascorro in Calabria. Ogni volta me ne vado con la sensazione di aver passato un periodo in una terra meravigliosa con gente ospitale, un mare straordinario e altre cose incantevoli – conclude -. Però non posso dimenticare le brutture e le storture. Le case iniziate e mai terminate, gli episodi di sopraffazione e le prepotenze. Il romanzo lo abbiamo scritto in due. Non abbiamo fatto una intervista. Nel racconto che è tutto vero ci sono sia le sue che le mie esperienze. Tutto è mescolato. Parlare con Marianna mi ha permesso di dare un contributo alla terra che amo tantissimo. Saremo felici se questo libro venisse letto nelle scuole e diventasse un testo di speranza per dimostrare che non bisogna sempre chinare la testa, ma avere fiducia nello Stato, anche quando le circostanze ci suggeriscono il contrario. Marianna è una donna libera dentro anche se vive come un fantasma. Può camminare a testa alta e dire di aver fatto la scelta giusta. Quanti calabresi ci sono che chinano la testa?». (m.presta@corrierecal.it)

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