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L'eredità dell'avviamento di Gioacchino Campolo

Operazione Las Vegas, l’accusa ha ottenuto dal Tribunale sezione misure di prevenzione il sequestro dei beni dei coniugi Sapone: «Un patto per farsi attribuire l’avviamento commerciale» dell’ex re …

Pubblicato il: 04/09/2020 – 7:26
L'eredità dell'avviamento di Gioacchino Campolo

di Fabio Papalia
REGGIO CALABRIA «La signora, viene prima lei e poi la mia famiglia». Una donna importante, una figura da non evocare, tanto che al solo nominarla la moglie si becca un rimbrotto dal marito che le intima di “parlare poco”. Secondo gli inquirenti la signora di cui parlavano i coniugi Sapone in una intercettazione del 2011 sarebbe da individuare nella moglie di Gioacchino Campolo, l’ex re dei videopoker. Antonio Sapone e sua moglie Maria Ripepi, insieme a uno dei loro figli, Vincenzo, sono gli imprenditori attivi nel settore del noleggio di apparecchi da gioco sin dai primi anni 2000 destinatari mercoledì scorso, con l’operazione Las Vegas, del provvedimento di sequestro emesso dal tribunale sezione misure di prevenzione – su richiesta del pm Stefano Musolino – sulla scorta delle indagini della Guardia di Finanza coordinate dalla DDA reggina. Secondo l’accusa il Gruppo Sapone avrebbe “ereditato” gli affari criminali di Gioacchino Campolo.
IL DOMINIO DEL RE DEI VIDEOPOKER Inizialmente, il mercato reggino del settore era dominato dalle imprese riferibili a Gioacchino Campolo, noto come il “Re dei videogiochi” (o dei videopoker). Secondo l’accusa le imprese di Campolo sarebbero state favorite dalla sponsorizzazione che gli derivava dalla ‘ndrangheta e dalla gestione criminale delle sue aziende. Senonché, quando Campolo fu arrestato, nel gennaio 2009, e le sue aziende oggetto di misure di prevenzione, si determinò una sorta di “vuoto commerciale” nel settore del noleggio degli apparecchi da gioco all’interno della città di Reggio Calabria e comuni limitrofi.
IL PATTO CON CAMPOLO Fu in quel contesto che, sempre secondo l’accusa, si sarebbero inseriti i coniugi Sapone e loro figlio Vincenzo, i quali avrebbero stretto un accordo con Campolo, per il tramite di alcuni suoi storici dipendenti. Il patto mirava a garantire l’interesse di Gioacchino Campolo a mantenere l’avviamento commerciale delle proprie imprese e la fidelizzazione dei gestori dei punti di commercializzazione dei servizi da gioco offerti tramite il noleggio dei relativi apparecchi elettronici, attraverso il loro affidamento alle imprese del “Gruppo Sapone”, con il patto di “retrocessione” dell’avviamento a Campolo, se fosse uscito indenne dai procedimenti penali e di prevenzione che all’epoca erano in corso a suo carico, oppure in caso di esito sfavorevole e dunque con il definitivo “game over” di Campolo dal mercato e delle sue aziende (che poi furono definitivamente confiscate), con l’accordo di cedere una quota della clientela ai dipendenti di Campolo, i quali a quel punto si sarebbero messi in proprio.
LE DICHIARAZIONI DI GAETANO CAMINITI Gaetano Caminiti, titolare di una sala giochi a Pellaro, la “Dragons Games”, aveva reso dichiarazioni al riguardo già nel lontano 19 marzo 2013. Le dichiarazioni di Caminiti confermerebbero la tesi accusatoria, in quanto dalle stesse risulterebbe che, subito dopo l’arresto del Campolo ed il ritiro delle macchine da gioco installate presso il suo esercizio, a Pellaro si erano presentati “con insistenza” presso di lui due dipendenti di Campalo, Domenico Ventura e Cristoforo Assumma, i quali, riferendo espressamente a Caminiti di lavorare per Antonio Sapone e dicendogli che avrebbero gestito la clientela di Campolo sino all’esito dei procedimenti penali in corso. «Dunque – scrive il tribunale sezione misure di prevenzione – ponendo in essere un sostanziale aggiramento delle misure cautelari e di prevenzione emesse dall’autorità giudiziaria, atteso che la clientela di Campolo sarebbe stata gestita da soggetti vicini al predetto. Ciò sarebbe avvenuto in forza di un preciso accordo intervenuto tra Antonio Sapone e i dipendenti, il primo dei quali avrebbe dovuto restituire l’avviamento commerciale già detenuto dal Campolo (e consolidato in forza di condotte di accertato rilievo penale) in caso di esito favorevole dei giudizi a suo carico. In caso contrario – e dunque qualora il Campalo non fosse stato in grado di tornare sul mercato in prima persona, situazione poi effettivamente verificatasi – Ventura e Assumma avrebbero aperto una ditta per conto loro, come concretamente avverrà attorno all’anno 2011».
Assume rilievo secondo il tribunale sezione misure di prevenzione la circostanza che, come riferito dal Caminiti, le condizioni economiche praticate da Sapone erano le stesse di quelle di Campolo, «a riprova che la sua attività commerciale costituiva la naturale prosecuzione di quella svolta in precedenza dal predetto».
Quanto alla credibilità di Caminiti, le sue dichiarazioni sono ritenute attendibili dal tribunale sezione misure di prevenzione, che ha valutato le osservazioni fornite dal pubblico ministero sul commerciante che dopo avere reso le sommarie informazioni era stato rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa ma che ha anche subito una serie di intimidazioni, danneggiamenti e minacce, giunte sino al suo tentato omicidio. Le dichiarazioni di Caminiti secondo i giudici della sezione misure di prevenzione trovano elementi di riscontro, oltre che in altre dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, anche nelle conversazioni intercettate dalla Guardia di Finanza e avvenute presso gli uffici della Savini s.r.l., società appartenente al “gruppo Sapone”.
LE INTERCETTAZIONI NEGLI UFFICI DI SAPONE In particolare, il 20 giugno 2011 erano avvenute presso gli uffici di Antonio Sapone, alcune conversazioni in cui Sapone, la moglie Maria Ripepi e i dipendenti discutevano degli accordi intercorsi a suo tempo. Di particolare rilievo, sempre secondo il tribunale sezione misure di prevenzione, è la conversazione da cui emergerebbe che «gli accordi comprendevano l’obbligo del Sapone di corrispondere una percentuale ad Assumma anche se detenuto, pur se questi recriminava che tale patto non era stato rispettato, indirettamente confermando la stipula di un accordo».
In altre conversazioni invece viene menzionata una “signora” a cui spettava una percentuale (“500 mio figlio glieli mandava alla signora”), che secondo gli inquirenti è da identificare verosimilmente con la moglie del Campolo, atteso che Assumma le attribuiva tanto importanza da preferirla alla propria famiglia: «la signora, viene prima lei e poi la mia famiglia».
L’accusa ritiene che tale identificazione sia desumibile pure dalla precedente conversazione telefonica del 16 giugno 2011 tra la Ripepi ed il marito nel corso della quale la prima menzionava una “signora” suscitando, per ciò solo, pur non avendone fatto il nome e senza esplicitamente evocare fatti illeciti, le ire del marito, il quale redarguiva la moglie dicendo che stava parlando “assai”, intimandole di “parlare poco”.
I COLLABORATORI DI GIUSTIZIA Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia De Rosa, Liuzzo e Gennaro confermerebbero la sussistenza di tale accordo e il sostanziale “subentro” dei Sapone nella posizione monopolistica nel settore già detenuta dal Campolo. A decorrere dal 2009 il fatturato delle aziende del Gruppo Sapone e i relativi redditi aumentarono in modo esponenziale. Dai 16.123 euro prodotti nel 2008, e dai 24.992 euro nel 2009, i redditi prodotti dal nucleo familiare crebbero sino a 122.684 euro nel 2010 per arrivare a 825.128 nel 2011.
LE VALUTAZIONI DEL TRIBUNALE «Allo stato, è emersa la prova – scrive il tribunale sezione misure di prevenzione – che i coniugi Sapone abbiano concorso nel farsi attribuire l’avviamento commerciale (concetto riconducibile a quello di “altra utilità” previsto dalla norma, in quanto entità suscettibile di valutazione economica, comprensivo della clientela e di altri “fattori di produzione” quali i dipendenti del Campolo) già di pertinenza del Campolo in modo fittizio, in quanto esso sarebbe tornato nella sfera del predetto in caso di verificarsi di un evento favorevole quale il dissequestro dei suoi beni o la sua scarcerazione, in tal modo eludendo le misure di prevenzione patrimoniale disposte nei confronti del predetto e contemporaneamente, sostanzialmente distraendo la clientela delle aziende in sequestro».

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