Lucio Dalla cantava di voler «morire in piazza Grande». Proprio lì, cioè in piazza Maggiore a Bologna, Claudio Lolli aveva immaginato (o rievocato) degli «zingari felici ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra». Francesco Guccini fotografò uno scorcio di Genova: «La Lanterna impassibile guarda da secoli gli scogli e l’onda; ritorna come sempre, quasi normale, piazza Alimonda». Franco Battiato descrisse un angolo di Sicilia, malinconica e poetica: «Veni l’autunnu, scura cchiù prestu, l’albiri peddunu i fogghi e accumincia ’a scola; da’ mari già si sentunu i riuturi, e a’ mari già si sentunu i riuturi».
Sempre nella Genova dei «labirintici vecchi carruggi», nei suoi versi “cristiani” Fabrizio De Andrè registrò in «via del Campo» un andirivieni di vogliosi, magari perfino reietti, poiché sulla soglia di un portone sostava dal buio all’alba «una graziosa, gli occhi grandi color di foglia», per smerciare «a tutti la stessa rosa».
Pino Daniele colse un tratto distintivo di Napoli: «è na’ camminata, int’e viche miezo all’ate». A Lisbona – tanto cara all’indimenticato Antonio Tabucchi – il lunedì si chiama ancora «segunda-feira», omaggiato da Manlio Sgalambro a memoria del mercato, del colore e calore di quel commercio di stampo popolare su cui Giorgio Concato si soffermò nel suo libro «L’angelo e la marionetta». Paolo Conte ricordava quando rimaneva «seduto in cima a un paracarro», in attesa che dalla curva spuntasse Bartali, «quel naso triste da italiano allegro», e poi rimproverava il vicino, verosimilmente un amico: «e vai al cine, vacci tu».
Del compianto Gigi Proietti tg e giornali hanno rammentato le «mandrakate» di «Febbre da cavallo», nel film sceneggiato da Alfredo Giannetti e Steno, insieme ad Enrico Vanzina, dovute alla mania per le scommesse ippiche di un gruppo di irriducibili squattrinati. Francesco De Gregori incoraggiava Nino, classe ’68, a «non aver paura di sbagliare un calcio di rigore», perché «non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore»; vedasi Roberto Baggio dei Mondiali Usa del ’94. E Dante, nel suo Paradiso, disse di Firenze: «Ma conveníesi a quella pietra scema che guarda ’l ponte che Fiorenza fesse vittima nella sua pace postrema. Con queste genti e con altre con esse, vid’io Fiorenza in sí fatto riposo, che non avea cagione onde piangesse».
Il Covid ha trasformato l’Italia, gli italiani, l’Europa, il mondo: eccezioni a parte, niente più turismo libero, sport, arte ed emozioni in presenza. E invece chiusure, paure, attese, smarrimento esistenziale, perdita di contatto, di rapporto con gli spazi urbani, le stagioni (di gucciniana memoria), le abitudini, le storie, le «cose della vita» e le «umane situazioni» celebrate da Eros Ramazzotti. Siamo appesi ai Dpcm, ai bollettini giornalieri, ai pareri degli esperti, alle notizie vere o false che spuntano sui social.
Lo scorso 27 marzo, nel silenzio di piazza San Pietro, deserta ed emblematica, rivolgendosi a Dio e agli uomini il Papa scandì: «Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Di seguito Francesco spiegò, parlando di Cristo: «Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, e di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire».
Forse al netto delle polemiche, delle perturbazioni, delle fratture della politica e della società, vale qui citare una profezia dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore sull’avvento dello Spirito, come messaggio di speranza in questo tempo di incognite ed impotenza generale. «Tre sono dunque gli stati del mondo (…) che i simboli dei sacri testi ci prospettano. Il primo è quello in cui siamo vissuti sotto la legge; il secondo è quello in cui viviamo sotto la grazia; il terzo, il cui avvento è prossimo, è quello in cui vivremo in uno stato di grazia più perfetta. Dunque, il primo si è svolto sotto il dominio della scienza, il secondo trascorre sotto quello della sapienza, il terzo usufruirà della pienezza dell’intelletto. Il primo è trascorso nella schiavitù, il secondo è caratterizzato da una servitù filiale, il terzo si svolgerà all’insegna della libertà. Il primo è segnato dal timore, il secondo dalla fede, il terzo dalla carità. Il primo periodo è quello degli schiavi, il secondo è quello dei figli, il terzo è quello degli amici. Il primo è il tempo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo dei fanciulli».
*giornalista
x
x