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«Investire sul Mezzogiorno significa investire sull’Italia»

di Orlandino Greco*

Pubblicato il: 01/01/2021 – 16:50
«Investire sul Mezzogiorno significa investire sull’Italia»

Ogni capodanno ha il suo fascino perché coincide con il bilancio di ciò che è stato e l’auspicio di ciò che si spera sarà l’avvenire.
I miei auspici, forgiati nella consapevolezza dell’impegno profuso nei confronti del Mezzogiorno e delle relative sfide sulle quali io ed il Movimento Italia del Meridione ci battiamo da sempre, sono rivolti ad un tema che ritengo centrale per il futuro del Paese da qui ai prossimi anni: il Sud. Siamo alla vigilia di un appuntamento importante per l’Europa e per l’Italia, quello del Recovery Fund, uno snodo fondamentale per la ripresa economica ma rispetto al quale non si possono scindere le ataviche vicende nostrane che tarpano le ali al cambiamento e relegano il nostro trend di crescita tra i peggiori dell’intera Eurozona.
Lo diciamo ormai da tempo che il problema competitivo italiano sta nell’iniqua distribuzione di risorse tra Nord e Sud del Paese in termini di infrastrutture e spesa sociale per scuole e sanità, perché sottraendo 61 miliardi di Euro all’anno negli ultimi 10 anni al Sud per finanziare le opere infrastrutturali del Nord, divenuto sempre più terra di conquiste per la politica clientelare, quella dei carrozzoni pubblici, si è ridotto il reddito pro-capite complessivo. Si è rinunciato, quindi, ad una dimensione nazionale di mercato interno, incongrua alla storia del nostro grande Paese, un’ambizione che non si è spinta oltre i particolarismi, gli egoismi e le nicchie di potere. Quegli stessi egoismi che, tra l’altro, stanno caratterizzando il dibattito pubblico nelle ultime settimane, un dibattito caratterizzato dai ricattucci da palazzo di forze minoritarie, nei confronti di un Governo dall’ormai acclarata dubbia conduzione di una fase delicatissima qual è quella che abbiamo vissuto in questo anno, la quale avrebbe richiesto maggiori scelte di campo, coraggiose e meno tendenti agli scaricabarile sugli enti locali e alle richieste da popolino.

Inutile sottolineare sui noti richiami di Bruxelles al nostro Governo per una giusta ripartizione dei fondi del Recovery Plan italiano, ma è bene ricordare che abbiamo di fronte una bomba sociale ad orologeria, probabilmente senza precedenti dal secondo dopoguerra, e di questo ho il timore che i nostri governanti delle segreterie ovattate romane non ne siano consapevoli. L’Ufficio studi di Confcommercio ha recentemente sottolineato come l’effetto combinato del Covid e del crollo dei consumi del 10,8%, pari a una perdita di circa 120 miliardi di euro rispetto al 2019, porterà alla chiusura definitiva di oltre 390 mila imprese del commercio nel 2020.
Allora l’imperativo categorico non può che essere più investimenti e meno incentivi, in quanto i benefici degli investimenti pubblici sono nettamente superiori a quelli degli incentivi perché i primi creano le condizioni dello sviluppo e attuano il riequilibrio tra le due Italie, i secondi invece servono probabilmente a far crescere consenso in alcuni settori ma hanno meno effetti sull’economia reale del Paese.

Non dimentichiamocelo, siamo quelli del debito pubblico al 180%, tra i più alti nell’intero globo, eppure ancora si chiude l’occhio a fronte di una questione meridionale del tutto irrisolta. Necessitiamo di pensatori e statisti che sappiano guardare alle future generazioni, immaginando un Paese finalmente unito e che viaggi alla stessa velocità da ambo le punte dello stivale. Non si tratta della solita solfa rivendicatrice ma di un’operazione verità su ciò che è avvenuto e tuttora avviene nel silenzio generale o tra sterili prese di posizione. Occorre fare luce su quello che ha significato la Cassa per il Mezzogiorno dalle nostre latitudini, un grande strumento di crescita, figlio di un’illustre mente come Pasquale Saraceno e mai come adesso una chiave di lettura fondamentale per il dibattito sull’impiego del Recovery Fund.
Saraceno, fondatore della Cassa, riuscì ad ottenere l’autonomia dell’Agenzia, alla quale era permesso, tramite dei budget prestabiliti, di assumere le decisioni di investimento in pieno arbitrio, implementando così progetti di sviluppo nella sola logica dell’eliminazione delle aree depresse, con risultati tangibili tutt’oggi in termini di infrastrutture, insediamenti industriali e agricoli. Saraceno stesso definì questo modello di sviluppo come “Keynesismo dell’offerta”, ovvero sostenere e promuovere la nascita di infrastrutture pubbliche che servissero da viatico per la crescita di un indotto di attività produttive che avrebbero portato a loro volta, tramite l’aumento di reddito, a una domanda interna forte nel meridione.

Ciò che successe dagli anni ‘70 in poi, ossia la politica che inizia a muovere i primi passi dentro i meccanismi decisionali della Cassa, con il potere di modificare o cambiare totalmente i piani prospettati dalla componente tecnica, è storia nota e l’epilogo fu inevitabile: finanziamenti a pioggia, spese altissime per gli amici degli amici e pochissima efficienza, segnarono la lunga agonia dell’Intervento Straordinario che tuttavia resta ancora, a distanza di anni, l’unica strada percorribile per risalire la china. La storia insegna e i mezzi a disposizione ci sarebbero, basterebbe un forte imprinting del Presidente del Consiglio per andare verso una gestione dei fondi che imiti la prima Cassa, favorendo uno sviluppo dei progetti in totale autonomia senza fattori esogeni che influenzino la bontà degli interventi, uscendo dunque dalla logica della lottizzazione del potere e dando priorità all’interesse generale, quell’interesse che, attraverso una visione di sviluppo unitario del Paese e seppur con anime profondamente differenti, concordava sugli obiettivi e scrisse pagine memorabili della nostra storia.
Dunque il primo atto politico serio da compiere dovrebbe essere quello di dare la precedenza agli investimenti pubblici sugli incentivi, effettuare una perequazione infrastrutturale e rivedere lo strumento della Spesa Storica che ha dato e continua a dare una visione distorta ed errata degli effettivi fabbisogni territoriali.
I calcoli per definire il fabbisogno standard sono basati sulla spesa degli enti locali e succede allora che i Comuni che negli anni passati hanno registrato spese nulle o limitate per i servizi si vedono riconosciuti fabbisogni bassi, generando il paradosso per il quale i territori che non spendono per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto ai territori settentrionali dove l’offerta di servizi è maggiore.

D’altronde la strategia europea parla chiaro: benché basata su debito comune, bisogna dare priorità alla coesione, che in Italia significa riequilibrio territoriale.
È questa la via maestra di un Paese che vuol tornare ad essere grande, un Paese che deve tornare a parlare seriamente di Mezzogiorno e di Mediterraneo, e con essi di infrastrutture materiali e immateriali, di scuola e università, di capitale umano e ricerca.
È questo il volano di sviluppo per la ripresa, ciò che ci aspettiamo nel nuovo anno dalle forze politiche che attualmente sono al timone del Governo.
È questa la via per recuperare il terreno perduto, prima che sia troppo tardi.

*Segretario Federale IdM

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