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«Le preziose pluralità della Calabria»

di Francesco Magris*

Pubblicato il: 29/01/2021 – 12:31
di Francesco Magris
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«Le preziose pluralità della Calabria»
Come si sa, Corrado Augias ha di recente definito la Calabria “perduta e irrecuperabile”. Le reazioni sono state immediate – non solo da parte di chi la Calabria l’ha nel cuore – e si sono focalizzate principalmente sulla superficialità dell’affermazione e su un certo pregiudizio negativo nei confronti dell’Italia meridionale che sarebbe ancora radicato nel paese, anche fra le sue élites. Criticare, giudicare o semplicemente segnalare difetti, mancanze e lacune di un individuo – ad esempio di un politico – oppure di un intero paese o di un’intera regione, rientra pienamente nel diritto di opinione e forse costituisce il sale stesso della democrazia, se è animato da un sentimento di empatia che conduce ad addolorarsi ed inquietarsi per quegli stessi difetti presi di mira; è proprio scovandoli ed indicandoli che si rivela l’autentica volontà che essi siano, se non eliminati, quantomeno corretti o smorzati, magari con opportune misure politiche, culturali ed economiche. Al contrario, l’astensione dal giudizio e dalla critica non è l’espressione di una bonaria tolleranza o di un non ben definito rispetto per l’altro, ma svela indifferenza e insensibilità per la sorte del prossimo e, in fondo, una rinuncia all’anelito di migliorare il mondo. Ben diverso è invece decretare l’irrecuperabilità totale di qualcuno o di qualcosa, negando quindi loro ogni prospettiva di miglioramento, come fossero un treno definitivamente deragliato dai binari del progresso o un malato terminale di fronte al quale la scienza medica ammette la propria impotenza, somministrandogli al massimo delle cure palliative. Dichiarare la Calabria perduta e irrecuperabile è, infatti, un’ammissione d’impotenza, una resa incondizionata di fronte al suo destino considerato già segnato, come stilare un necrologio con cui si annuncia con mestizia un decesso già avvenuto. Significa in altre parole accantonare ogni speranza di riforma e di progresso e, sconfessando Max Weber, rinunciare all’esercizio sia dell’etica della convinzione (che cosa idealmente si desidera) sia di quella della responsabilità (che cosa concretamente si può fare). Le voci indignate che si sono sollevate in risposta alla frase di Augias non hanno mancato di evidenziare la particolare storia della regione, le responsabilità che ricadono pure sul nord per le sue condizioni passate ed attuali, le peculiarità del suo tessuto culturale e sociale che richiede interventi specifici e realmente efficaci. Nessuna di queste voci disconosce gli enormi problemi della Calabria, quali la criminalità organizzata, la corruzione, le pratiche clientelari e pure alcuni retaggi culturali che frenano pesantemente i tentativi di riforma. Ma la Calabria, pur senza cedere alla tentazione elencatoria e aziendalistica del dare e avere, della sterile analisi costi-benefici, è tante cose, attraenti o inquietanti, seducenti o repulsive, certamente quasi sempre contradditorie. Come ripeteva Leonida Rèpaci, citando Dante, la Calabria “sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”; come dicono tanti scrittori e poeti, è una pluralità di tratti, un arcobaleno di colori che include i più scuri e tetri come quelli più luminosi. Come in fondo ogni persona, ogni nazione, ogni comunità; pure un singolo corpo è composto da cellule sane e da altre meno, da organi funzionanti e da altri più affaticati anche se, almeno secondo Gramsci, i calabresi hanno forse una fibra particolare in quanto “sono gente dal carattere temprato come l’acciaio”. Un problema che spesso sorge è quello di volere invece collocare ogni realtà in una precisa casella della matrice con cui si pretende di rappresentare il mondo in maniera esaustiva e tassonomica, ma proprio per questo semplificata. Amartya Sen da sempre evoca il grande pericolo che deriva dall’esasperazione di un’unica identità – egli si riferisce in Identità e violenza alla religione – in quanto trascura la complessità e l’intreccio di tratti e caratteristiche che contribuiscono a definire persone ed enti collettivi. Un individuo, ad esempio, è tante cose simultaneamente: biondo o moro, religioso o ateo, liberale o socialista, carnivoro o vegetariano, amante della musica o del cinema, tifoso di calcio o di altri sport, apassionato del mare o della montagna. Il riduzionismo identitario non solo costituisce una frettolosa semplificazione di un individuo o di una comunità ma può facilmente condurre all’intolleranza e ad agire quale detonatore allo scoppio di conflitti in quanto polarizza gli individui o le società sulla base di un’unica caratteristica, ignorando invece tutte quelle altre che li accomunerebbero anziché dividerli. È proprio sulla base dei pericoli che scaturiscono dalla polarizzazione identitaria che Sen propugna la promozione del pluralismo politico, sociale e culturale a livello sia individuale sia collettivo: esso dovrebbe facilitare il dialogo e la tolleranza per mezzo dell’identificazione di spazi mentali, valori morali e sentimenti di appartenenza da poter condividere in piena armonia. Negli ultimi anni si sono uditi molti giudizi affrettati e semplificati che a volte rasentano il cliché: forse nascono e si sviluppano dal non sapere (o non volere) guardare ciò che realmente sono gli altri e forse pure ciò che realmente siamo noi. L’identità monadica – spiega Tzvetav Todorov in La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà – è solo un mito che può essere autodistruttivo. Ogni realtà è complessa, varia ed articolata; essa appare sempre, al suo interno, frutto d’intrecci e incroci d’identità, in un continuo e vitale flusso di scambio reciproco con il proprio “altro”, con il quale finisce per condividere forse più cose di quante la separino da esso. Bisogna rifuggire dalla tentazioni di giudizi sommari e risolutori sull’Italia e le sue parti, incluse quelle, come la Calabria, che qualcuno considera periferiche, marginali, relegate al fondo delle classifiche di performance, dinamismo, qualità della vita e ammontare del PIL. E magari riuscire ad amarle, come Pasolini amava il suo arcaico e contadino Friuli o Noventa e Zanzotto il loro pur contradditorio Veneto. *Professore Ordinario di Politica Economica, Università di Trieste
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