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la ricostruzione

Omicidio Corvi, dal “cenno del capo” al silenzio imposto dal clan. Le accuse del fratello pentito di Lo Giudice

I dettegli sull’assassinio della donna avvenuto nel 2009 forniti dal collaboratore Nino Lo Giudice, fratello dei due indagati

Pubblicato il: 06/04/2021 – 7:08
di Giorgio Curcio
Omicidio Corvi, dal “cenno del capo” al silenzio imposto dal clan. Le accuse del fratello pentito di Lo Giudice

TERNI Ricopriva un ruolo considerato di “spicco” all’interno di una delle cosche di ‘ndrangheta tra le più potenti in Italia e dominanti a Reggio Calabria e provincia. Era lui, per gli inquirenti, il reggente della cosca Lo Giudice, dopo l’uccisione del capostipite, Giuseppe.
Ed è stato proprio Antonino “Nino” Lo Giudice, arrestato nell’ottobre del 2010, a fornire agli investigatori elementi probatori di grande importanza, utili a ricostruire la scomparsa di Barbara Corvi, avvenuta il 27 ottobre del 2009 a Montecampano, frazione di Amelia, in provincia di Terni. Un caso per il quale la Procura di Terni aveva chiesto l’archiviazione il 19 giugno del 2013, confermata dal gip il 20 maggio 2015.

Dall’archiviazione ai nuovi indizi

Indagini però riaperte l’11 aprile del 2019 quando la Dda della Procura della Repubblica di Reggio Calabria trasmette ai colleghi di Terni alcuni atti contenenti le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Nino Lo Giudice, rese il 17 gennaio dello stesso anno. Antonino Lo Giudice è il fratello di Roberto e Maurizio, rispettivamente classe ’72 e ’76, di Reggio Calabria. Il primo è finito in carcere mentre il secondo è indagato, insieme al fratello, per l’omicidio e l’occultamento del cadavere di Barbara Corvi, coniuge proprio di Roberto.

Il racconto del fratello pentito

Una “confessione stragiudiziale” quella di Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni verrano poi confermate a maggio del 2020, fornendo ulteriori dettagli. Il pentito racconta ai giudici, si legge nell’ordinanza firmata dal gip Simona Tordelli, del «clima criminale che si respirava a Reggio Calabria e le precauzioni adottate, tenuto conto dell’attenzione costante osservata dagli inquirenti verso il clan, che suggeriva al capo clan circospezione e cautele nei movimenti, nei contatti e, soprattutto, particolare attenzione alle conversazioni più che probabili bersaglio di intercettazioni telefoniche e ambientali». In quello stesso periodo, racconta ancora Nino Lo Giudice ai magistrati, il clan «temeva agguati da cosche avverse anche nel periodo immediatamente successivo alla scomparsa di Barbara Corvi». L’invito del capo cosca, inappellabile, rivolto ai fratelli anche di ‘ndrangheta e residenti a Reggio Calabria era di «non commentare la vicenda di Barbara perché temeva di essere intercettato».
Secondo gli investigatori, il racconto di Nino Lo Giudice è considerato particolarmente attendibile, sia perché molti dei dettagli forniti sono stati confermati dai riscontri investigativi effettuati dagli inquirenti, sia perché la sua ricostruzione non risulta «animata da acredine nei confronti dei fratelli Maurizio e Roberto» e non ci sarebbe neanche «risentimento o animo ritorsivo» anche perché lo stesso Nino Lo Giudice esclude la partecipazione dei due fratelli dalle attività criminali svolte dal clan.

Il silenzio imposto e il cenno affermativo del capo

Bisognava tacere, dunque. Il livello di attenzione all’interno del clan Lo Giudice era altissimo sul caso della scomparsa di Barbara Corvi. Circostanza emersa anche durante l’incontro avvenuto nel 2010 a Reggio Calabria tra Nino Lo Giudice e il fratello Roberto tra agosto e settembre. In quell’occasione – si legge ancora nell’ordinanza – apprende del trasferimento di Roberto a La Spezia dal fratello Maurizio poco dopo la scomparsa della moglie Barbara. In quello stesso incontro, racconta Nino Lo Giudice, il fratello avrebbe confermato il suo coinvolgimento, così come quello di Maurizio, «nella scomparsa di Barbara solo con un cenno confermativo del capo» rispettando così le precauzioni imposte proprio dal fratello Nino, anche tutti gli interlocutori.
Per i giudici «il gesto confermativo del capo e le parole proferite da Roberto Lo Giudice riguardo ad un proprio personale coinvolgimento nella scomparsa della moglie, appaiono assolutamente sincere e spontanee, rivolte nei confronti di coloro che, per provenienza e matrice culturale, ben avrebbero potuto comprenderne il significato e la portata». (redazione@corrierecal.it)

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