SORIANO CALABRO L’agguato che il 25 ottobre 2012 è costato la vita a Filippo Ceravolo è avvenuto vicino al calvario di Vazzano. Un’edicola votiva con scene della passione di Cristo ha visto anche la passione e la morte di un ragazzo di 19 anni. È stato a quell’incrocio, nove anni fa, che si è scatenato l’ennesimo attacco di una guerra di mafia, quella tra le cosche Loielo ed Emanuele. L’attacco era diretto a Domenico Tassone che guidava l’auto presa di mira da una pioggia di fuoco. Sul sedile del passeggero c’era Filippo Ceravolo, «l’agnello» come lo ha definito padre Giovanni Calcara nel corso della messa celebrata ieri sera nella chiesa di San Domenico a Soriano Calabro. Vittima innocente che ha avuto la malasorte di andare in panne con la macchina e accettare un passaggio da un altro giovane, legato agli Emanuele e divenuto bersaglio di una faida sanguinosa.
Appassionata, come poche a queste latitudini, l’omelia di padre Giovanni. «Il calvario è segno della croce, della sofferenza ma quel Cristo risorge, non rimane sulla croce – ha detto il sacerdote –. Si può morire per caso? Si può morire perché una vittima si trova al momento sbagliato, come se fosse questa una giustificazione? Quello può essere l’evento ma dietro ci sono le cause, la lotta delle cosche Emanuele e Loielo. Questo territorio, dicono i rapporti degli inquirenti, è sotto il giogo di queste cosche. Sta a noi, con la nostra azione quotidiana, dire che non è così». Padre Giovanni ha ricordato Martino Cervavolo, padre di Filippo, e la sua tenacia per ottenere «giustizia anche su questa terra». Una battaglia che non deve proseguire in solitaria ma va supportata da tutta la comunità civile. «Perché Martino – ha ricordato padre Giovanni – è stato additato nel tempo passato come “lo sbirro” solo perché cerca giustizia, perché si incatena dinanzi ai tribunali per sollecitare l’intervento della magistratura. Ma mettetevi nella condizione di un padre che non vede più ritornare il proprio figlio di 19 anni».
Ma dov’era, ieri sera, la comunità civile? In chiesa si contavano circa 70 persone. Tra queste il tenente colonnello Alessandro Corda, vicecomandante dei carabinieri della Provinciale di Vibo Valentia, il capitano Francesco Conigliaro, comandante della Compagnia di Serra San Bruno, il luogotenente Barbaro Sciacca, comandante della Stazione di Soriano. C’erano i sindaci di Soriano, Vincenzo Bartone, Gerocarne, Vitaliano Papillo, e Sorianello, Sergio Cannatelli. C’erano i responsabili di Libera Vibo Valentia Giuseppe Borrello e Maria Joel Conocchiella. C’era l’avvocato della famiglia Ceravolo, Michele Gigliotti. C’erano i testimoni di giustizia, arrivati con le loro scorte, Rocco Mangiardi e Tiberio Bentivoglio. C’erano i familiari di Francesco Tramonte e Pasquale Cristiano, anche loro agnelli, vittime innocenti di una guerra di mafia che ha stravolto Lamezia Terme. C’erano i giornalisti calabresi e due giovani giornaliste di France 24. Non sono mancati alcuni colleghi di lavori di Martino Ceravolo, venditore ambulante di dolciumi, accanto a lui nelle piazze della Calabria e vicini a lui nel momento più difficile. Di questo Martino era molto felice. Ma dov’erano i ragazzi? Gli amici di Filippo? Il paese, la comunità dov’era? C’era vuoto e silenzio per le strade di Soriano Calabro. «A Soriano non è cambiato molto per i giovani che dovrebbero essere qui e non ci sono», ha tuonato padre Giovanni il quale ha sottolineato anche l’assenza delle scuole e delle famiglie citando Martin Luter King: «Non ho paura dei malvagi, ma del silenzio degli onesti».
La morte di Filippo Ceravolo non è solo un fatto di cronaca giudiziaria. È, prima di ogni altra cosa, un lutto che non si cancella e che ha spezzato la vita di una famiglia. Il libro “Vite spezzate”, di Maria Maiolo racconta lo strazio dell’anima, il buco nero che niente riesce a riempire. Anche Maria Teresa, sorella maggiore di Filippo, ha disegnato il proprio dolore attraverso le parole. Ha raccontato di avere un famiglia, ora, e due bellissimi figli. Ma al puzzle della propria vita manca un tassello e non c’è niente da fare: lo sguardo cade sempre su quel pezzo mancante. «Avete ucciso un ragazzo di 19 anni che nulla aveva a che fare con la vostra guerra», racconta ancora la lettera di Maria Teresa che chiede con tenacia: «Chi sa, parli».
E infine Martino, il papà, che non retrocede di un millimetro: «Fino a che io sarò in vita combatterò», dice. Martino Ceravolo non dimentica e non ha timore di descrivere gli sguardi torvi che lo seguono, gli sguardi di coloro che non amano la sua lotta senza sosta che non sopportano la sua sete di giustizia. «Quando questa storia verrà chiusa – dice – dovranno pentirsi di quello che hanno fatto». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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