MILANO Un “curriculum” criminale di prim’ordine e anche aneddoti che arrivano dal passato, storia da “Milano da bere”, quella che Rocco Morabito, il boss della ‘ndrangheta estradato ieri in Italia dal Brasile, ha frequentato per anni, prima delle (tante) indagini che lo hanno visto protagonista e delle altrettante fughe dalla giustizia. L’episodio saltò fuori da un’inchiesta milanese: il trafficante internazionale di droga, uno dei più importanti al mondo, venne fotografato dagli investigatori mentre, il 15 marzo del 1994, in doppiopetto grigio, accompagnato dal cognato Domenico Mollica, teneva in mano in piazza San Babila, pieno centro di Milano, una valigetta con dentro 2,9 miliardi di lire dell’epoca. L’inchiesta milanese, coordinata all’epoca dal pm Laura Barbaini, poi passata alla Procura generale e ora in pensione, portò a scoprire che Morabito stava consegnando quei soldi destinati ai narcos colombiani.
Sulla base di quell’indagine, che accertò come il boss, che all’epoca non aveva ancora 30 anni, passasse da incontri in San Babila e nella zona della Galleria Vittorio Emanuele a quelli nelle banche in Svizzera, Morabito fu condannato nel ’97 dalla Corte d’Appello milanese per associazione mafiosa e traffico di droga a 28 anni di carcere, poi confermati dalla Cassazione nel 2000. L’ordine di arresto per i 30 anni da scontare, che ha portato all’estradizione, invece, è stato firmato dalla magistratura di Reggio Calabria per una condanna successiva.
L’inizio della fine, per Morabito, è datato 2017. E anche in quel caso il boss viene pescato in una condizione difficile da immaginare per i comuni mortali. Il re del traffico internazionale di droga venne catturato in una villa con piscina a Montevideo in “compagnia” di 12 carte di credito e 13 telefoni cellulari. Materiale che gli serviva per gestire i suoi affari illeciti e mantenere i rapporti con i suoi sodali sparsi in tutto il Sud America ed in vari Stati europei. Il boss nel suo rifugio uruguayano aveva anche una serie di carnet di assegni, una consistente somma di denaro in contanti, una Mercedes ed un passaporto brasiliano. Il 24 giugno del 2019 Morabito evase, insieme ad altri tre detenuti, dal carcere di Montevideo attraverso un tunnel e si rifugiò a Joao Pessoa, in Brasile, dove fu arrestato per la seconda volta il 25 maggio del 2021. Era da quest’ultima data, dunque, che si attendeva l’estradizione in Italia del boss, concretizzatasi stamattina con il suo arrivo nell’aeroporto di Ciampino.
Morabito i crismi dello “svelto” li aveva già dimostrati fin dalla prima metà degli anni 80. Rocco “u Tamunga”, un nomignolo affibbiatogli per la passione nutrita per un vecchio modello di fuoristrada militare tedesco fabbricato dalla Dkw, al pari di moltissimi delle giovani leve della ‘ndrangheta della piana di Gioia Tauro e della Locride, sbarca a Milano e si fa subito valere negli ambienti criminali. Appena venticinquenne, avvia – con la regia della cosca madre “africota” dei Morabito-Palamara -Bruzzaniti – un fiorente traffico di stupefacenti, eroina e cocaina, inondando i locali della movida meneghina di “polvere e champagne”, ricavandone cifre vertiginose. «È il balzo – racconta all’Agi un vecchio sott’ufficiale dell’Arma – che permette alla ‘ndrangheta della Locride di trasformare i soldi dei sequestri di persona in attività “visibili”, lecite, soprattutto nei commerci e nella gestione dei locali notturni». Rocco Morabito è uno dei nuovi volti a cui le cosche della ‘ndrangheta affidano la loro internazionalizzazione, soprattutto monopolizzando l’acquisto di partite ingenti di cocaina dai “cocaleros” mesoamericani, scalzando Cosa nostra a colpi di miliardi di vecchie lire, fino a conquistare la totale fiducia dei vari “cartelli” del sud America per la grande disponibilità di “plata” (soldi) e per la puntualita’ dei pagamenti. Pur avendo grande credito nelle gerarchie della sua cosca di appartenenza, non ha mai occupato un grado strategico elevato nell’organigramma dei Morabito-Bruzzaniti-Palamara, pur essendo stato uno dei creatori di ricchezza del gruppo criminale di Africo e di altre “famiglie” a esso collegate.
Nella “Milano da bere”, Rocco Morabito, oltre a manovrare elevate quantita’ di stupefacente, è uno dei protagonisti degli anni d’oro delle discoteche, dei lounge bar famosi, muovendosi spesso tra piazzale Baracca e piazza Diaz, dove, a frotte, giungono tutte le sere i rampolli della borghesia milanese in “cerca di forti emozioni”.
Un terreno fertile per fare soldi ma, soprattutto, per intessere rapporti, conoscenze con personaggi dello spettacolo e del mondo degli affari, un percorso che porta fino ai nostri giorni, con la ‘ndrangheta ormai infiltrata profondamente nel tessuto sociale ed economico della Lombardia. Ma la “bella vita” non dura mai a lungo per uno ndranghetista, e tanto meno per Rocco “u tamunga”, diventato nel frattempo uomo di fiducia dello zio Domenico Antonio Mollica, uno dei protagonisti negli anni 80 della sanguinosa faida di Motticella, scoppiata all’interno della cosca “africota” a seguito di contrasti per la divisione del riscatto del sequestro della farmacista Concetta Infantino, originaria di Ferruzzano, a quattro passi da Africo. Rocco Morabito, nel 1994, impatta contro la legge, quando tenta di pagare oltre tredici miliardi di lire ad agenti sotto copertura scambiati narcos, in cambio della fornitura di una tonnellata di cocaina. Da quel momento, dopo essere riuscito a schivare le manette, Morabito è uccel di bosco e durante un arco di quasi venticinque anni, tutti trascorsi tra Brasile, Argentina e Uruguay, corrompendo settori della vita pubblica, riesce a sottrarsi alla cattura dei carabinieri in varie occasioni, fino all’estradizione di ieri dal Brasile. In Italia lo aspetta una condanna definitiva a trent’anni di reclusione.
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