“Lei era ubriaca, ha lasciato la porta socchiusa, un invito ad osare”.
Questa la frase scandalo contenuta nella recenta sentenza emessa dalla Corte di Appello di Torino che ha assolto un ragazzo dall’accusa di strupro. Secondo i giudici della Corte d’Appello la ragazza “alterata per un uso smodato di alcol (…) provocò l’avvicinamento del giovane che la stava attendendo dietro la porta”. Al di là della discutibilità di deduzioni a dir poco fantasiose e a tratti paranoiche dei giudici della Corte, come si fa a non intravedere l’impronta di una mentalità patriarcale che giustifica una concezione del sesso simile a quella praticata dagli animali, trascurando un piccolo particolare: è necessaria la volontà e la consensualità dei protagonisti anche qualora si volesse praticare del sesso violento.
Sui gusti non si discute, ma il consenso ci deve essere, non lo si può dedurre. Mentalità arcaica che traspare da questa sentenza, o nel video choc di Begge Grillo, che per giustificare il figlio e i suoi amici paragona lo stupro di gruppo ad una bravata tra ragazzi o nel caso di Alberto Genovese. Mentalità con cui le donne devono confrontarsi fin dai primi anni di vita in famiglia, a scuola, a lavoro, giustificata a volte dalla stessa mancanza di solidarietà di altre donne.
E’ giusto quindi parlare di “Cultura dello stupro”, espressione utilizzata dagli studi di settore e in sociologia per descrivere una modalità di pensiero nella quale non solo la violenza e gli abusi di genere sono molto diffusi, minimizzati e normalizzati, ma dove sono normalizzati e incoraggiati anche gli atteggiamenti e le pratiche che giustificano e sostengono quella violenza e che pretendono di avere il controllo sulla sessualità femminile.
L’origine dell’espressione “rape culture” è incerta. Tra le prime a parlarne, negli anni Settanta, vi fu la produttrice e regista statunitense Margaret Lazarus che nel documentario “Rape Culture” affrontò il tema della rappresentazione dello stupro nel cinema, nella musica e in altre arti. In quegli stessi anni, nel libro Against our will: Men, women and rape, la scrittrice e giornalista Susan Brownmiller parlò di «cultura solidale con lo stupro». Brownmiller sostenne che lo stupro è «un processo cosciente di intimidazione attraverso il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura». Cultura collegata a quel processo di stigmatizzazione dei comportamenti e dei desideri sessuali femminili che si discostano dalle aspettative di genere tradizionali, il cosiddetto “slut shaming“, e alla colpevolizzazione della vittima quando subisce una violenza, lo spostamento cioè su di lei della responsabilità o di parte della responsabilità di quel che è accaduto, definito come victim blaming. Colpevolizzazione che emerge chiaramente nella sentenza dei giudici torinesi, dove in virtù di un’acrobazia mentale e priva di fondamento giuridico ritengono che il comportamento della vittima (lasciare la porta socchiusa) equivalga ad un “Sì accomodati e fai di me quello che vuoi” che scagionerebbe l’imputato.
La giustizia dovrebbe non solo seguire sempre un percorso logico ma dovrebbe basarsi su fatti e prove senza farsi condizionare da pregiudizi e preconcetti che fanno venir meno la posizione di “terzietà” del giudice, l’essere cioè al di sopra delle parti. Un dato su cui riflettere che conferma l’esistenza di una cultura dello stupro è offerto dal Report Istat del 2019 che fotografa un’immagine sugli sterotipi di genere particolarmente allarmante: il 39,3% della popolazione ritiene infatti che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (23,9%). Il 15,1%, inoltre, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”, per il 6,2% le donne serie non vengono violentate. Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà. Dopo il caso Esptein e il movimento “me too” si pensava di aver rivoluzionato un sistema culturale che colpevolizzava la donna e condannava la cosiddetta masconilità aggressiva, ma casi come quello di Torino ci dimostrano che la strada è ancora in salita. Il vero obiettivo è di riuscire a formattare il pensiero radicato nella nostra cultura che immagina la donna come una proprietà da poter occupare abusivamente e non come una persona libera di decidere se e quando dire no!
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