MILANO A Rho, di fronte a minacce ed estorsioni della famiglia di ‘ndrangheta Bandiera, «l’omertà era assoluta». Il Milanese come la Calabria profonda (o, almeno, come la dipinge l’immaginario collettivo). Per la Dda di Milano il paragone non è azzardato. La pm Alessandra Cerreti ha coordinato l’inchiesta che ha portato in carcere 49 persone per i loro legami con il clan Bandiera. E illustra con pochi numeri la sostanza dell’inazione registrata dai magistrati antimafia nel corso dell’inchiesta: «Ci siamo imbattuti in una decina di episodi di estorsione e in almeno 5 episodi di minacce gravi, alcune solo perché le vittime avevano mancato di rispetto. Nessuno ha denunciato». Il campionario del “locale” è il solito, rispolvera metodi di intimidazione arcaici, teste di capretto o di agnello, frasi inquietanti («ti mangio il fegato») o sinistre («se volete faccio la cattiva», dice la donna che siede, tra gli altri, al vertice del clan).
La famiglia Bandiera – capoclan nato a Cropani, nel Catanzarese, 74 anni fa e discendenza meneghina – ha anche una faccia bonaria. Al punto da far dire a Cerreti che Gaetano e Cristian Bandiera, vertici della “ricostituita” e di nuovo smantellata ‘ndrina, «erano punti di riferimento sul territorio per la popolazione. La gente comune andava da loro per risolvere beghe di condominio, banali liti. E non siamo a Platì o a Rosarno, ma siamo in Lombardia». L’organizzazione mafiosa diventa, secondo i magistrati antimafia, «punto di riferimento sul territorio». Un presidio utile per risolvere controversie e incomprensioni contando sulla forza intimidatrice. Cristian Bandiera, per i magistrati della Dda di Milano, è «ben inserito nel territorio», una «persona in grado di “controllare” e risolvere le più disparate faccende, ovviamente riguardanti attività illecite». Succede nel luglio 2020, proprio all’avvio delle attività tecniche di intercettazione disposte dagli inquirenti. Bandiera viene contattato da un uomo «per risolvere una questione riguardante il figlio». Il ragazzo «aveva rubato una bicicletta a un uomo di Pogliano Milanese», questo però lo aveva scoperto e «pretendeva una somma di denaro a fronte del danno subìto, minacciando di procedere per vie legali». Il figlio del boss si era messo a disposizione «al fine di “risolvere a modo suo” la vicenda, intervenendo direttamente con minacce» per dimostrare «la sua capacità intimidatoria».
Questa forma di controllo del territorio sconfina quasi nella paranoia quando è orientata a schermarsi dalle inchieste della magistratura. Cristian Bandiera temeva i controlli delle forze dell’ordine e aveva «attivato un vero e proprio sistema di “controllo” esterno alla sua abitazione, luogo dove organizza e pianifica le attività illecite, operato tramite la visione di immagini registrate da un impianto di videoripresa».
Le telecamere «sono orientate per riprendere anche zone e aree pubbliche, con il fine primario (se non esclusivo) di controllare i movimenti esterni, individuare in anticipo eventuali visitatori non graditi, con particolare riferimento a personale appartenente alle forze dell’ordine». Bandiera sarebbe stato in grado, dall’interno della propria abitazione, «di controllare in diretta l’ingresso pedonale e l’accesso carrabile» del complesso in cui vive, «nonché, nella zona condominiale, la zona di accesso dei condomini ai locali cantine», utilizzati per nascondere la droga. C’era anche un addetto al controllo in diretta delle videocamere, sottoposto alle «minacce» del figlio del boss «qualora non esegua alla lettera i suoi ordini». Specie quando c’è da spostare un carico di stupefacente. «Mi raccomando, guarda là… non muore l’occhio da là, eh! Anche con la Punto sono sbirri, Tonino, guardate pure voi», ordina Bandiera. È, questo, un controllo del territorio finalizzato alla sopravvivenza del clan. Che pensa a “tutelare” se stesso dalle inchieste della magistratura. Le denunce dei cittadini, invece, non fanno paura. Perché non ci sono. Anche nel profondo Nord. (ppp)
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