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L’orrore dopo la speranza, picchiata e stuprata per pagare il debito con la mafia nigeriana

In aula a Reggio il racconto di una ragazza partita dall’Africa inseguendo un lavoro. Il boss le ha portato via un figlio nato dalla violenza

Pubblicato il: 15/01/2023 – 7:23
L’orrore dopo la speranza, picchiata e stuprata per pagare il debito con la mafia nigeriana

REGGIO CALABRIA Vive in una struttura protetta. Ha subìto violenze, stupri, false promesse diventate un incubo. Anche un rito vodoo per convincerla che sarebbe morta se non avesse saldato il debito di 25mila euro contratto per il suo viaggio della speranza. Nella storia finita al centro del processo in corso a Reggio Calabria ci sono le speranze di una giovane donna che si schiantano contro gli interessi delle organizzazioni criminali. Sullo sfondo ci sono gli affari della mafia nigeriana, in primo piano sopraffazioni e violenze indicibili. Hope (il nome è di fantasia, ndr) ha attraversato il deserto, dal Niger alla Libia, dove è stata picchiata e violentata in una connection house, poi si è imbarcata ed è arrivata a Reggio Calabria nel 2014 su una nave militare. Da lì pensava di arrivare a Bari e iniziare a lavorare in un bar per pagare il “prezzo” per il proprio viaggio e mandare qualche dollaro in Africa. In Puglia, invece, ha trovato altre violenze e un “lavoro” come prostituta per riscattare la propria libertà.

La mafie nigeriana: il culto operativo anche a Reggio Calabria

Dei 25mila euro è riuscita a restituirne solo 14, per cui le è stato rubato pure il figlio nato probabilmente da uno stupro subito da Favour Obazelu, il suo presunto aguzzino, anche lui nigeriano. Obazelu è imputato, nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise, per riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale. Hope, che vive in una struttura protetta, si è presentata in aula per rispondere alle domande della pm Sara Amerio. Davanti a lei Obazelu, considerato dalla Procura uno dei boss della mafia nigeriana e capo di un culto chiamato “Supreme Vikings Confraternity”. Per la Dda si tratta di un clan operativo «tra la Nigeria e l’Italia. E in particolare a Reggio Calabria, Bari e in altre città della Puglia».

Dal lager libico al marciapiede. «Violentata anche da incinta»

Il racconto della ragazza è una summa di ciò che accade a chi attraversa il Mediterraneo guidato dalla disperazione: le violenze nei lager libici («loro picchiare con la mano o con qualsiasi cosa”, “loro ti prende la pistola e metti nella tua testa, così, o alla pancia… così ti uccidono»), poi una barca a «due piani: c’è un piano sopra e noi siamo giù – racconta –. C’è tanta gente dentro. Non potevo muovermi. Non mi hanno dato né da mangiare né da bere».
L’arrivo a Bari segna l’inizio di nuove angherie tra la casa di Obazelu e il marciapiede. «Tu fai solo questo lavoro. Tu fai per pagarmi. Non c’è un bar, non c’è altro lavoro per fare», lo scarno discorso del presunto aguzzino alla vittima. «Ero costretta a prostituirmi tutti i giorni tranne la domenica quando andavo a chiedere l’elemosina», racconta Hope. Che era costretta a fare «sesso con violenza… tante volte. Io dire no… non c’era scelta. Mi costringeva ad avere rapporti sessuali con la violenza. Anche quando sono rimasta incinta». Dagli abusi sarebbe nato pure un bambino: «Il padre veramente non lo so se è Friday, perché qualche volta quando lavoro si rompe la… no lo so». Hanno tentato di farla abortire ma il bambino è sopravvissuto. E nonostante fosse incinta avrebbero continuato a farla prostituire fino al giorno in cui ha partorito per poi tornare in strada «dopo una settimana» dal taglio cesareo. «Devi andare a lavoro perché devi pagare l’affitto, deve mangiare il bambino e devi fare tutto. Tu ricordi? Se tu non paga, tu devi morire… morire tutta la tua famiglia», sarebbero state le parole del “padrone” di Hope.

Il neonato sottratto dal boss e usato come arma di ricatto

La ragazza avrebbe anche assistito agli incontri tra gli affiliati del Cult. E conferma il verbale reso agli investigatori prima del processo. Aveva spiegato alla pm che «Friday è un capo di un culto chiamato indifferentemente Arubaga o Vikings. Durante la mia permanenza a Bari ho visto che ogni domenica riceveva un gran numero di uomini con i quali si riuniva. Bevevano alcol, cantavano ed a volte celebravano un rito d’ingresso per nuovi adepti. Durante il rito, l’aspirante adepto veniva picchiato ed attraverso un piccolo taglio ad un dito ne prelevavano un po’ di sangue che veniva diluito nelle bevande e bevuto dai presenti. Non so quale sia lo scopo di questo gruppo, ma so che se violano il vincolo del segreto verranno uccisi». È nel corso di uno di questi incontri che Obazelu avrebbe mandato via di casa Hope. Per lei è iniziato un nuovo calvario: ha dormito per un po’ alla stazione ferroviaria, poi a Torino, da un’amica, e poi a Palermo dove ha trovati altri connazionali. L’hanno sfruttata anche loro, mentre il neonato è sempre rimasto a Bari con il boss della mafia nigeriana che lo ha pure riconosciuto. Obazelu, racconto la ragazza durante la fase delle indagini, «ha chiamato mia madre dicendole che se io avessi terminato di pagare il mio debito avrei potuto riavere il mio bambino».

«Mia madre ha fatto un altro juju per liberarmi»

Davanti al mancato pagamento, la mafia nigeriana avrebbe sequestrato il fratello di Hope. Lei ha denunciato, ha avuto il coraggio di sfidare in aula il suo carceriere. Ma crede ancora alle stregonerie che l’hanno tenuta prigioniera. Lo dimostra un passaggio della trascrizione dell’udienza quando il pm Amerio le ha chiesto: «Tu hai detto che in Nigeria ti eri impegnata, avevi fatto la promessa per 25mila euro. Poi hai detto che più o meno gliene hai dati a Friday 14mila. Quelli che mancano cosa pensi di fare? Ti senti che sei obbligata a darglieli?». La risposta è un “no”: «Per adesso no. La mia mamma già ha parlato con la mia… andata in un altro posto per… e ha detto che se io non paga non succede niente. La mia mamma è andata in un altro posto di voodoo, non so come si chiama… Hanno fatto un altro juju (rito, ndr) per liberarmi dal debito». (redazione@corrierecal.it)

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