La strage di migranti al largo di Steccato di Cutro. Le piccole bare in fila al Palamilone di Crotone. Ma anche la difesa per le posizioni del governo e del ministro Piantedosi («ingiuste e vergognose le critiche contro di lui») contro una narrazione di sinistra che costruisce falsi miti sull’accoglienza. Il sottosegretario all’Interno Wanda Ferro è reduce dalle ore segnate dall’ennesima tragedia del mare. Al Corriere della Calabria racconta (anche) le strategie per il contrasto a una ‘Ndrangheta sempre più ricca e assestata sui mercati finanziaria. E lancia uno sguardo nel capo del centrosinistra dopo l’elezione di Elly Schlein a segretario del Partito democratico.
Lo ammetto. Ho provato ad immaginarla, con l’occhio di una calabrese curiosa, in una delle centinaia di stanze nel cuore della potente macchina dell’Interno, garante della sicurezza del Paese, delle libertà individuali, delle risorse investigative, delle informazioni segrete. In materia di controllo dei flussi migratori. Roba da far tremare le vene ai polsi se penso solo alla “responsabilità morale” del suo ruolo che la obbliga a prendere atto dell’ennesimo dramma, di una strage di innocenti che tra qualche giorno sarà archiviata come una nefasta fatalità, come la solita tragedia del mare, causata dall’imperizia questa volta degli scafisti turchi al timone di una piccolissima imbarcazione stracarica di uomini, donne e bambini iraniani, afghani e pakistani, morti annegati insieme ai loro sogni sulle coste di Steccato di Cutro. Un crimine che si ripete.
«I resti del naufragio sulla spiaggia di Cutro, i corpi coperti dai teli, le piccole bare bianche in fila nel palazzetto dello Sport di Crotone, sono immagini che difficilmente possono essere dimenticate, emozioni intense, dolorose, difficili anche solo da raccontare. E che, certo, sono un richiamo al senso di responsabilità per chi è chiamato a ruoli di governo, un interrogativo continuo alla propria coscienza: se la strada intrapresa sia quella giusta, cosa fare di più per evitare che drammi del genere possano ripetersi. E di fronte a decine di vite sommerse nelle acque fredde del nostro mare, la risposta non può essere ideologica, condizionata dalla dialettica politica. E la risposta è che l’unico modo per impedire davvero di mettere a rischio migliaia di vite umane è impedire che queste maledette carrette del mare continuino a partire dalle altre sponde del Mediterraneo. Bisogna fermare i trafficanti che continuano a sfruttare la disperazione e le speranze di queste persone, mettendole in mare con imbarcazioni sempre più inadeguate. Per questo ho parlato di tragedia annunciata. Bisogna uscire dall’ipocrisia. La nostra intelligence conferma che la presenza di navi di soccorso rappresenta un vantaggio logistico per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti, che per aumentare i loro profitti utilizzano sempre più imbarcazioni fatiscenti e inadatte alle traversate, esponendo a maggiori rischi le persone imbarcate. Addirittura le attività delle navi di soccorso vengono spesso pubblicizzate sui social network dalle organizzazioni di trafficanti quali garanzia di maggiore sicurezza del viaggio verso l’Europa. Per questo sono state ingiuste e vergognose le critiche rivolte al ministro Piantedosi, che pure si è recato subito sul luogo del naufragio per esprimere solidarietà alle vittime e per assicurare il proprio sostegno al personale impiegato nell’imponente dispositivo di soccorso e assistenza.
Il ministro, con il suo richiamo alla responsabilità non ha certo voluto addossare colpe ai familiari delle vittime, bensì rivolgere un appello a chi pensa di affidare la propria vita a trafficanti senza scrupoli. Poi il governo sta lavorando in maniera concreta per fare entrare legalmente e in sicurezza chi ha diritto, avendo intensificato fin dal suo insediamento i corridoi umanitari, con numeri importanti, oltre 600 profughi, e in soli due mesi abbiamo anche approvato il decreto flussi che consentirà l’ingresso regolare di 83.000 persone. Purtroppo la sinistra non rinuncia alla polemica ad ogni costo, mettendo in dubbio persino la volontà di soccorrere l’imbarcazione: una insinuazione offensiva dell’impegno e del sacrificio di tutti coloro che hanno dato il massimo nelle operazioni di soccorso, di ricerca e di assistenza ai superstiti. Ho parlato con alcuni di loro, con chi si è gettato tra le onde gelide dello Jonio per salvare più vite possibili, con chi è stato costretto a portare a riva i corpi dei bambini, non oso pensare con quali sentimenti di disperazione. A loro dobbiamo rendere onore, non trascinarli in un’azione di sciacallaggio politico. Le nostre unità militari sono costantemente impegnate nelle attività di soccorso nel Mediterraneo, ma nel caso di Cutro gli stessi rappresentanti di Guardia Costiera e Guardia di Finanza, presenti ai massimi livelli a Crotone durante la riunione in prefettura, hanno sottolineato chiaramente l’oggettiva impossibilità di intervenire a causa delle condizioni del mare forza 7, assolutamente proibitive».
La rotta tra la Turchia e la Calabria non pattugliata dalle navi Ong. La rotta turca, sovrastata evidentemente dall’esodo caotico che parte dalla Libia, sembra sia stata -non senza colpe – sottovalutata dall’intelligence. A certificarlo sono anche i dati dello stesso ministero dell’Interno, che assegnano una quota del 20% (su 14.104 migranti arrivati in Italia dall’inizio dell’anno) agli sbarchi di profughi prevalentemente siriani, iracheni, iraniani, afghani, pakistani, provenienti dalle coste turche. E’ ipotizzabile l’esistenza di organizzazioni turche che sfruttano un diverso segmento di mercato nel traffico di esseri umani?
«La rotta via mare dalla Turchia è meno nota rispetto alle altre che attraversano il Mediterraneo, è più costosa, ma è sempre più frequentata anche grazie all’allentamento dei controlli dopo il terremoto che ha colpito il Paese. È certamente la rotta più redditizia per le organizzazioni di trafficanti, ma anche quella più rischiosa, perché la traversata è piena di incognite, e perché anziché approdare in Grecia, dove i controlli sulle frontiere sono più intensi e viene percepito come maggiore il rischio di essere respinti o detenuti, gli scafisti preferiscono dirigersi verso l’Italia, e la Calabria in particolare. È una rotta, appunto, che non è mai stata presidiata dalle navi delle Ong, per questo è davvero in malafede chi mette in relazione la tragedia di Cutro con il decreto del governo, che peraltro non ha certo l’obiettivo di impedire i soccorsi in mare, ma introduce regole perché si svolgano in coerenza con le norme internazionali. Ribadisco che per azzerare i rischi bisogna impedire le partenze, garantire il diritto di asilo attraverso corridoi umanitari sicuri e assicurare gli ingressi legali attraverso i flussi. Non c’è niente di umano nell’incentivare l’approdo in Italia di migliaia di migranti economici per poi disinteressarsi del loro destino, lasciandoli trascinare in un sommerso di disperazione, di sfruttamento, spesso di illegalità. Non è questa l’accoglienza».
La ‘ndrangheta non alimenta miti e leggende. A dimostrarlo le tante catture, negli ultimi anni, di boss del calibro di Rocco Morabito, Mario Palamara, Luciano Camporesi e Francesco Pelle, avvenute senza lo stesso clamore mediatico riservato a Matteo Messina Denaro. E al contrario di Cosa nostra non sfida le istituzioni, ma preferisce infiltrarsi al suo interno, puntando sui rapporti con la massoneria. Una strategia quella dell’inabissamento, che la dice tutta sull’enorme potere delle ‘ndrine, sparse in tutto il continente, considerate per troppo tempo solo un coacervo di famiglie rozze e primitive, incapaci di investire in ogni settore decisivo del Paese: dall’edilizia, alla ristorazione, dalla finanza al gioco online; nella sanità e perfino nell’editoria.
«Il clamore suscitato dalla cattura di Matteo Messina Denaro è comprensibile, anche per lo straordinario valore simbolico di questo arresto, arrivato dopo trenta anni di latitanza del pupillo di Totò Riina, e che chiude un capitolo della mafia stragista, che certo non potrà dirsi archiviata finché non emergeranno fino in fondo tutte le verità. Un successo dello Stato, ottenuto grazie alla dedizione e ai sacrifici di tanti servitori dello Stato che hanno lavorato per raggiungere questo obiettivo. Gli arresti dei latitanti di ‘ndrangheta hanno forse meno fascino mediatico, ma non sono certo meno importanti, e dimostrano che lo Stato non arretra nella lotta alla criminalità organizzata. Ma Cosa nostra in questi anni ha cambiato pelle, non è più la mafia che fa la guerra allo Stato con attentati eclatanti: ha imparato molto dalla ‘ndrangheta, che ha capito da tempo che è nel suo interesse lavorare sotto traccia, non suscitare allarme, fondersi con la realtà sociale, avere spesso la capacità di fare da welfare per le fasce di popolazione più in difficoltà, condividere percorsi affaristici con chi è in cerca di scorciatoie tra gli imprenditori, i professionisti, i politici, gli amministratori. Ormai nel core business delle organizzazioni mafiose ci sono le operazioni finanziarie internazionali per il riciclaggio di denaro, le infiltrazioni nelle istituzioni e nell’economia per controllare gli appalti, basti pensare all’interesse sulle risorse del Pnrr. Una strategia che richiede una grande capacità di relazione con quella che viene generalmente chiamata zona grigia, in cui ci sono professionisti, imprenditori, pezzi infedeli delle istituzioni, la massoneria deviata. D’altro canto è risultato subito evidente come Matteo Messina Denaro abbia saputo creare una rete di protezione grazie ai rapporti con la cosiddetta borghesia mafiosa. Le cosche si sono evolute e si sono adattate alle moderne logiche di mercato: tendono ad evitare le manifestazioni di violenza, privilegiando invece una silente infiltrazione economica, che mettono in atto potendo contare sulla capacità di relazione con professionisti, imprenditori, funzionari infedeli, quell’area grigia che si fa partner delle cosche e ne agevola l’infiltrazione nel contesto economico, favorendo l’immissione di capitali illeciti nell’economia sana e il condizionamento del mercato e del sistema degli appalti pubblici. Il “consenso sociale” è probabilmente la chiave con cui le organizzazioni criminali riescono a penetrare fino ai gangli più profondi il sistema economico e sociale dei diversi territori. Spesso l’immissione di liquidità da parte delle organizzazioni mafiose viene recepita come positiva sui territori, ma nella realtà la distorsione del mercato, le dinamiche corruttive, l’accaparramento degli appalti a scapito di imprese rispettose delle regole, nel tempo si rivelano fattori di progressivo e inesorabile indebolimento del tessuto produttivo e imprenditoriale sano, finendo per impoverire il territorio. Noi dobbiamo evitare che la percezione della cittadinanza sia quella di una mafia che crea ricchezza e lavoro, al contrario di uno Stato che con gli interventi di prevenzione e repressione lascia sui territori miseria e disoccupazione. Per questo stiamo puntando molto, ad esempio, sulla valorizzazione del lavoro dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, alla quale sono stata delegata dal ministro Piantedosi, perché è fondamentale nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata. La confisca e il riutilizzo dei beni infatti consente da un lato di colpire i clan aggredendo i patrimoni accumulati con le attività criminali, dall’altro di risarcire la società consentendo il riutilizzo dei beni per fini sociali e per creare nuovi presidi di legalità, affermando anche da un punto di vista simbolico la vittoria dello Stato sulle cosche. E poi con una maggiore attenzione sui temi della gestione delle aziende confiscate e delle interdittive antimafia, vogliamo valorizzare l’imprenditoria sana, che opera nel rispetto delle regole».
Alfredo Cospito – come Leoluca Bagarella nel 2002 (il boss stragista che in teleconferenza accusò i politici di non aver mantenuto le promesse) – riaccende lo scontro politico e la speranza dei mafiosi di alleggerire «da tutti quei contenuti puramente afflittivi» il 41bis. Se per un verso la Cassazione – confermando il regime del carcere duro per Cospito – trasferito nel penitenziario di Opera a Milano – chiude dal punto di vista giudiziario la vicenda dell’anarchico finito al 41bis, dall’altro lascia aperto il dibattito tra favorevoli e contrari.
«Al di là della posizione di Cospito, su cui vanno rispettate le valutazioni della magistratura, il governo Meloni ha giustamente scelto la strada della fermezza rispetto a capisaldi della nostra legislazione antimafia, come l’ergastolo ostativo e il carcere duro, in un’ottica di bilanciamento tra valori costituzionali ugualmente tutelati. Da un lato le garanzie del reo, dall’altro le esigenze di salvaguardare la collettività dalla criminalità mafiosa, che compromette diritti inviolabili, come quelli alla vita, alla iniziativa economica, alla libertà. Il governo ha indicato con estrema chiarezza da quale parte stare: quella del contrasto alle mafie, della tutela delle vittime, del rispetto del lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine che con grandi sacrifici e rischi personali combattono le organizzazioni criminali che soffocano e affamano i nostri territori. Non possiamo dichiarare chiusa l’emergenza mafiosa che, anche grazie alle intuizioni di servitori dello Stato come Falcone e Borsellino, ha ispirato questi strumenti, che si sono dimostrati non solo efficaci, ma imprescindibili, nell’azione di contrasto. Sul tema del garantismo bisogna essere chiari: io penso si debba prestare grande attenzione alla garanzia dei diritti di indagati e imputati in ogni fase e grado del procedimento, ma nel nostro sistema si registra forse un’eccessiva indulgenza nei confronti dei condannati con sentenza passata in giudicato, frutto probabilmente del convincimento che la funzione della pena si risolva nella sola funzione rieducativa della pena, dimenticando le funzioni social-preventiva, retributiva e punitiva. Purtroppo già nella scorsa legislatura, intervenendo a difesa dell’ergastolo ostativo, avevo immaginato che il principale obiettivo sarebbe stato la revisione del 41bis. È inquietante che oggi, intorno a questo disegno, si sia registrata una pericolosa saldatura tra le mafie e le organizzazioni anarchiche. Per questo sulla vicenda Cospito è stata giusta la linea di fermezza del governo, e sarebbe auspicabile una posizione di chiarezza da parte di tutte le forze politiche».
Elly Schlein inaspettatamente prende il posto di Enrico Letta. Come per la Meloni, sorprende tutti e diventa il primo segretario donna del Pd e, non senza qualche analogia, se pensa per esempio a: «Sono un underdog» che potrebbe fare il paio con quanto dichiarato dall’underdog di sinistra, a pochi minuti dalla vittoria delle primarie: «Anche stavolta non ci hanno visti arrivare» e ancora «Sono una donna, amo un’altra donna, non sono madre ma non per questo sono meno donna, perché non siamo uteri viventi, siamo persone con i loro diritti» che non può non richiamare alla mente «Sono Giorgia, sono una donna, sono italiana, sono cristiana e nessuno può portarmi via tutto questo». La Schlein sarà, come dicono, l’antimeloniana per scelta?
«Anche più che antimeloniana per scelta, la Schlein sembra quasi una antimeloniana costruita in provetta, e lo dico con rispetto e senza voler sminuire il suo percorso politico e il suo successo. Intendo che credo sia stata scelta perché, oltre ad essere certo una donna capace, rappresenta, politicamente, il riflesso rovesciato di Giorgia Meloni. Le differenze sono profonde, e onestamente non vedo analogie tra la storia di Giorgia e quella della Schlein, tra chi ha iniziato a fare politica da ragazzina in una sezione di periferia, affrontando anche situazioni familiari ed economiche non semplici, diventando leader passo dopo passo, e chi ha fatto la prima esperienza prendendo un volo per gli Stati Uniti per fare la volontaria a sostegno di Obama. Non è certo una colpa, non sminuisce il suo percorso, ma marca una differenza molto forte con la storia di Giorgia Meloni, lei sì una underdog. Mentre Giorgia, a mio avviso, ha un approccio molto pragmatico, proprio di chi ha fatto politica tra la gente e ne conosce i bisogni reali, oltre a portare con sé il vissuto, le esperienze e i valori di un partito molto radicato, vedo in Elly Schlein una forte connotazione ideologica, radicale, intrappolata nel politicamente corretto, buona da spendere nei salotti televisivi, ma ancora condizionata all’odio per l’avversario e legata a temi distanti anni luce dalle priorità dei cittadini. Credo che insistere su quella strada aumenterà ancora di più le distanze tra il Pd e gli italiani, o almeno con la maggioranza moderata. Noi ci aspettiamo una opposizione durissima, speriamo che sia sui temi e sulle idee. Nella elezione della Schlein però non posso non leggere due dati positivi: l’elezione, finalmente, di una segretaria donna anche per il Pd – magari grazie proprio al ruolo di Giorgia Meloni, che da dieci anni è alla guida di Fratelli d’Italia – e la partecipazione alle primarie. La presenza di partiti veri, radicati, che costruiscono le loro proposte partendo dai territori e dalla gente, è un valore per la politica e per la democrazia». (paola.militano@corrierecal.it)
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