LAMEZIA TERME Pittelli è un ex parlamentare della Repubblica e un ex massone. Questo presuppone un patrimonio di conoscenze, rapporti, possibilità. «Un patrimonio che Pittelli mette sul piatto quando si rapporta con la cosca Mancuso», dice il sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, Antonio De Bernardo, nel corso della requisitoria del processo Rinascita Scott. Giancarlo Pittelli, avvocato, è imputato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Suo è il «ruolo cerniera» che avrebbe reso possibile allacciare i contatti tra il mondo dei colletti bianchi e quello della criminalità. E nel mondo della criminalità vi è una figura come Luigi Mancuso, il capo della potente famiglia di ‘ndrangheta di Limbadi. Dopo la sua scarcerazione nel 2012, “il Supremo”, come veniva chiamato Mancuso, «sembra voler formare intorno a sé di nuovo tutta una provincia criminale nel Vibonese». Luigi Mancuso, come testimonia anche il collaboratore Bartolomeo Arena, ha questo potere, gode del riconoscimento delle altre consorterie. Il collaboratore di giustizia Andrea Mantella – il cui gruppo era comunque scissionista rispetto al potere dei Mancuso – lo definisce «un mito», ricorda De Bernardo.
Pittelli rappresenta, rispetto a un soggetto come Luigi Mancuso, la possibilità di arrivare dove il Supremo «non può arrivare con la mano sua». «Pittelli – è ben consapevole di chi sia Luigi Mancuso – prosegue De Bernardo mentre sugli schermi dell’aula bunker appare l’immagine dei due vicini fuori da un ristorante –. Ne è consapevole perché era il suo difensore ma lo sapeva e malcelava un certo apprezzamento per questa figura dal cervello fino». Lo dimostra, per esempio, il fatto che Pittelli definisca Mancuso «più giovane e più potente» di Giuseppe Piromalli. In una conversazione intercettata, riporta il pm, Pittelli così si esprime: «Tu pensa – diceva – che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli. L’altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente… Io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… L’altro giorno ci pensavo, dico trentasette anni…».
«La dote della Santa è un passaggio fondamentale dell’evoluzione della ‘ndrangheta», ha affermato il magistrato. Senza la progressione portata dalla Santa – dote di ‘ndrangheta nata negli anni ’70 che permette allo ‘ndranghetista che la possiede di entrare nella massoneria – senza la fusione con la società circostante «la ‘ndrangheta sarebbe un comune sodalizio criminale che probabilmente sarebbe stato già sconfitto. La metafora del cancro usata per descrivere questo fenomeno è efficace anche per questo: le cellule del cancro vivono fuse con quelle sane dell’organismo. Questo è stato chiaro da subito a chi per primo è stato chiamato a fronteggiare il fenomeno mafioso». De Bernardo richiama una frase del “prefetto di ferro” Cesare Mori che operò in Sicilia dal 1924 al 1929 e fu implacabile contro la mafia: «Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l’aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il colpo mortale alla mafia lo daremo quando sarà consentito rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, in qualche ministero».
«Il prefetto Mori parlava di rastrellamenti noi oggi, per fortuna, parliamo di comprensione del fenomeno, di accertamento e contrasto giudiziario – dice il pm –, ma il cuore del problema era e resta quello: quel colpo mortale non è stato ancora dato».
«Noi riteniamo che la ‘ndrangheta è una ma allo stesso modo, in forza di elementi altrettanto granitici, riteniamo che questo macro-organismo si alimenti e viva di questo rapporto, di questa osmosi con parti della società e delle istituzioni». Secondo il pm nei luoghi di «questa squallida osmosi, vanno purtroppo aggiunte anche le stanze di alcuni uffici giudiziari, di alcuni studi legali, le sedi di partito, gli uffici della pubblica amministrazione».
«Ma se nel rapporto con gli strati medio-bassi della popolazione, questa partita si gioca sul piano del rapporto protezione-consenso – ha proseguito il magistrato – dove la contropartita è poter lavorare, poter fare impresa, attraverso i contatti massonici la ‘ndrangheta si interfaccia con la classe dirigente, anzi, diventa essa stessa classe dirigente». «Non potranno esserci mai fino in fondo democrazia e giustizia fino a quando quel colpo mortale non sarà dato».
«Noi quel colpo di cui parlava Mori glielo vogliamo dare, per la nostra parte. Abbiamo provato a focalizzare questo aspetto cercando di ricostruire sul piano dei fatti il funzionamento di questa osmosi, la logica e le modalità operative di questi rapporti, di questa vischiosa ragnatela fatta di grandi e piccoli favori, di clientele».
Senza affrontare il tema dei rapporti della ‘ndrangheta con la massoneria e i colletti bianchi non si può comprendere appieno una figura come quella di Giancarlo Pittelli.
Nel corso dell’udienza il pm ha asserito: «Possiamo uscire da questa vicenda processuale senza dire che questo sistema esisteva, un sistema basato su queste logge coperte e di queste logge coperte facevano parte questi personaggi e che i Mancuso facevano parte di queste logge coperte. E che Mancuso era in contatto con Sabatino Marrazzo (Sabatino Domenico Marrazzo, 66 anni, detto “il massone”, appartenente all’omonima cosca di Belvedere Spinello, ndr) e che Sabatino Marrazzo aveva la doppia investitura: che ricopriva il ruolo di maglietto pulito e ascoltava la loggia coperta Pitagora e Pittelli faceva parte di queste logge e Pittelli interloquiva con questi soggetti e quindi aveva questo tipo di rapporti con Mancuso. Possiamo uscire da questo processo senza dire questo? Non possiamo». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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