È morto l’ex leader democristiano Arnaldo Forlani. Avrebbe compiuto 98 anni l’8 dicembre prossimo. L’ex segretario democristiano si è spento serenamente a casa sua, a Roma. E’ stato l’inventore del “preambolo”, una di quelle formule che popolavano la politica della Prima Repubblica – insieme alle convergenze parallele, per citarne un’altra, fortunatissima, attribuita invece a Aldo Moro – e poi diventò il “Coniglio mannaro”, quando ogni leader politico aveva il suo soprannome di riferimento. Era stato un calciatore, da giovane, e poi fu molto altro. Presidente della Dc, più volte parlamentare e ministro, vicepresidente e presidente del Consiglio. E due volte segretario della Dc. La seconda, sul finire di quella fatidica Prima Repubblica, fu uno dei tre leader a dare l’iniziale al Caf. Arnaldo Forlani, con Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha percorso la politica attraverso le fasi distinte per comodità di cronaca tra Prima e Seconda Repubblica. L’ultimo ad accomiatarsi, a 97 anni, anche se da lungo tempo aveva lasciato la politica attiva.
Nato a Pesaro, l’8 dicembre 1925, orgoglioso dei suoi trascorsi giovanili come mezzala nella Vis Pesaro, e rimasto sempre appassionato di calcio, Forlani è stato un protagonista dell’ultima fase del pentapartito, culminata con il patto di ferro dell’allora segretario Dc con Craxi, consacrato da quella sigla, Caf, gioia dei titolisti, siglato in un altrettanto iconico appuntamento, direttamente da lui con il leader socialista: correva il maggio dell’89 e gli uffici di Bettino Craxi nell’area ex Ansaldo dove si teneva il 45esimo congresso Psi erano ospitati appunto da un camper. Fu lì che si tenne un colloquio riservato, nel senso che non aveva altri testimoni ma era sotto l’occhio di una foresta di macchine fotografiche e telecamere, che segnò, almeno per comodità cronistica, la fine del governo De Mita e il ritorno a Palazzo Chigi di Giulio Andreotti. Craxi, Andreotti, Forlani: Caf. E sì che Forlani con De Mita aveva formato la coppia dei ‘gemelli di San Ginesio’, inteso come luogo in cui venne siglato un altro patto, quello che ciclicamente si ripropone tra ‘quarantenni’ che si propongono di farsi largo tra i leader più stagionati dei rispettivi partiti. La Dc, in questo caso. E infatti eccoli, il 9 novembre 1969, l’uno, Forlani, segretario e l’altro, De Mita, vicesegretario. Andiamo avanti veloce. Ministro delle Partecipazioni Statali dal dicembre 1968 all’agosto 1969, della Difesa dal novembre 1974 al luglio 1976, degli Esteri dal luglio 1976 all’agosto 1979, deputato dalla III all’XI legislatura (vale a dire dal ’58 al ’92), europarlamentare tra l’89 e il ’94, presidente del Consiglio tra il 1980 e il 1981, vicepresidente tra il 1983 e il 1987. Pagine di cronaca politica che partono in bianco e nero e via via acquistano i colori, proprio come le tv nelle case degli italiani. Ma che si colorano anche di sangue. Quando è il suo turno alla guida del governo, il terrorismo colpisce, ma c’è anche l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, la Dc conosce la sconfitta nel referendum sull’aborto, e scoppia lo scandalo P2, che porta alle sue dimissioni. Vengono infatti scoperte le liste di Gelli, rese note dopo due mesi, ritardo che finisce per costringerlo alle dimissioni. Arriviamo a tempi più vicini a noi. Dopo l’89, dopo il crollo del Muro, tutto cambia. Dentro e intorno alla Dc. fino a quando arrivano il 1992 e le inchieste della Procura di Milano. Mani Pulite, Tangentopoli, le manette, gli avvisi di garanzia. Finisce il Caf, la corsa al Quirinale vede Andreotti contro Forlani, anche se non se ne farà nulla per nessuno dei due, ma per un motivo terribile. La strage di Capaci resetta le geometrie del Palazzo e lo scatto d’orgoglio porta al Colle Scalfaro. Poi ci sono istantanee entrate nella cronaca contemporanea, quelle del processo Enimont, il serrato interrogatorio di Di Pietro, la flemma abituale del leader dc che a tratti vacilla. Si ritira dalla politica attiva, la segue a lungo, ma da lontano, da osservatore, senza più cercare riflettori, incarichi, ruoli dietro le quinte. Sempre distaccato, mai rancoroso, mai uno scatto d’ira, un’uscita a voce alta. Molte battute, a modo suo, all’inglese, con quell’accento marchigiano accennato ma inconfondibile. Sempre pronto a concedersi comunque a generazioni di cronisti, certi di tornare sempre con una battuta ‘da titolo’ sul taccuino. E di sentirsi rivolgere l’immancabile “attenti alle mani”, cortese quanto inderogabile avviso che lo sportello della macchina blindata stava per chiudersi, e con esso la conversazione.
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