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l’analisi

«Serve un nuovo modo di declinare il “diritto di punire”»

Quando arriva ferragosto e s’indugia per qualche momento staccandosi dalla routine, il pensiero corre ai non protetti, ai derelitti ed agli abbandonati

Pubblicato il: 15/08/2023 – 20:47
di Nunzio Raimondi
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«Serve un nuovo modo di declinare il “diritto di punire”»

«Il regno della libertà non giunge rendendo gradualmente più confortevoli i letti delle prigioni». (E.Bloch)
Quando arriva ferragosto e s’indugia per qualche momento staccandosi dalla routine, il pensiero corre ai non protetti, ai derelitti ed agli abbandonati.
Se scorri stampa e televisione fioriscono interventi sullo stato degli ospedali e delle carceri, finalmente i riflettori si accendono sugli ultimi, gli “scarti” (P.P. Francesco) delle “periferie” del mondo.
L’ennesimo suicidio in carcere assurge alla notorietà grazie all’intervento di un Ministro che, giustamente, considera simili azioni alla stregua di un’ulcera sanguinante.
Stamattina, nel fare gli auguri al mio Maestro, si discuteva di cosa significhi rimanere nella realtà, dire pubblicamente di qualcosa o di qualcuno che si conosce in un mondo dell’apparenza nel quale tutti parlano di tutto.
Perfino nel ricordare qualcuno che non c’è più non s’interviene «per celebrare ma per celebrarsi» (Veneto).
Forte di questo – nuovo e grande – insegnamento, anche oggi provo a dire – come mi sforzo di far sempre – quel che conosco un po’ meglio di questo mondo dei “non protetti”; provo a raccontare la mia personale esperienza che, seppure non vale a chiarire le cose o a celebrare le persone (alle quali cerco di avvicinarmi con rispetto e senza ipocrisie), almeno cerca di far conoscere qualcuno o qualcosa che a me sembra di aver davvero visto e conosciuto.
In trentacinque anni di professione d’avvocato ho conosciuto la vita in carcere e posso affermare che essere privati della libertà è un supplizio insostenibile.
Nel 1996, ormai poco meno di trent’anni fa, mi fu regalato da un indimenticabile amico e grande penalista italiano, l’edizione italiana di un volume del celebre sociologo del diritto norvegese Thomas Mathiesen (lo conservo in bella vista nella biblioteca del mio Studio).
In quell’epoca muovevano i primi passi in Italia gli studi sull’abolizionismo, che dipoi i criminologi di tutta Europa svilupparono molto attraverso i contributi sulla la cosiddetta criminologia critica.
Ovviamente si tratta di un tema di enorme portata che qui non mette conto di affrontare con la profondità che s’addice, ma vedo oggi che alcune riflessioni, cui all’epoca conduceva il pensiero di Mathiesen, stanno tornando per così dire “di moda”: si pensi, ad esempio, alla stella del mattino ispiratrice della cosiddetta Riforma Cartabia, quell’orientamento che chiede al giudice di considerare effettivamente «la pena detentiva come un male a cui ricorrere il meno possibile”» (Cottino). Ed anche a quella tendenza a superare modelli correzionali redentivi dell’antisocialità.
Cosa cerco di dire, sperando che ci riesca.
L’autore di reato (recte: agente) non può essere inteso in senso ideale bensì in una dimensione reale, così come non esiste una vittima di reato in senso ideale (come dirò in appresso) ma una vittima reale, sicché la risposta statuale alla “devianza” deve essere, per gravità, graduata e selezionata in un ambito diverso da quello della pena.
Questa selezione è infatti improprio effettuarla sulla pena (proporzionalità) bensì essa dovrebbe essere calibrata sulla struttura stessa del reato.
Questa cultura della gradualità deve riguardare la reale offensività della condotta di reato (quindi la legge penale) e non la fenomenologia espurgativa e correzionale che attiene all’opinione generale sul fatto, infiltrata com’è quest’ultima dal giudizio morale comune.
Ed invece vedo giuristi e politici discettare di aggravamento delle pene con effetto dissuasivo o, come dicono quelli colti, di prevenzione generale (equivocando peraltro sul concetto di difesa sociale…ma questo è un diverso e più lungo discorso).
Per l’oggi dirò quindi che la rinnovata centralità della vittima del reato evidenzia il tema della vulnerabilità: il crimine è un conflitto la cui gravità è soggettiva, sicché la vittimologia ha finito per riportare le responsabilità individuali nel corretto diagramma dei conflitti.
La vittima può infatti autodefinirsi tale; non può essere definita dall’esterno.
Così pure l’autore del reato non può essere definito astrattamente ma deve essere definito nella realtà.
Ovviamente questo radicale mutamento ordinamentale e culturale, che proprio dal pensiero abolizionista negli anni ottanta del secolo scorso ha preso le mosse -e che oggi sembra rifiorire -, sarebbe l’unico rimedio adeguato a risolvere il gravissimo problema dell’inutile “tortura” del carcere ed anche quello che Mathiesen definiva un vero e proprio “fiasco del carcere”.
In che modo?
Riappropriandosi del diritto di selezionare i conflitti sottraendo molti di essi alla giustizia penale che ha preteso impropriamente di rimanerne titolare.
E non soltanto con la cosiddetta “giustizia informale”(pratiche di riconciliazione ecc.),ma sopratutto attraverso un nuovo modo di declinare il cosiddetto “diritto di punire”, sostituendolo col diritto della comunità statuale di sedersi accanto al deviante non per giudicarlo ma, dove è possibile, per accompagnarlo in un percorso di effettivo recupero sociale non meramente correzionale.
Perché il diritto penale è in fondo «studio dell’uomo e delle dinamiche che lo avvolgono» (Veneto). E non è una celebrazione astratta….

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