REGGIO CALABRIA «Il problema è di tutti, lo stesso problema lo abbiamo noi, ce l’hanno tutti». Il “problema” di cui parla Vittorio Quattrone in una conversazione riportata nelle carte dell’inchiesta “Atto Quarto” riguarderebbe tutte le famiglie di ‘ndrangheta, compresa la “loro”, assicura. Ritenuto dagli investigatori «espressione della cosca Libri nel quartiere di Gallina», Quattrone parla con altri due soggetti delle difficoltà nell’estorcere denaro agli imprenditori. Il racconto di una “crisi”, quella vissuta dai clan, raccontata anche in un’altra conversazione, questa volta protagonisti sono Totò Libri e Antonino Gullì, ritenuto suo braccio destro. I due, parlando delle varie dinamiche criminali, si lasciano andare ad evocazioni nostalgiche dell’epoca in cui era più “agevole” riscuotere il pizzo nel territorio reggino: «quindici anni fa», dicono «dove andavi andavi ti “calavunu” soldi».
Crisi, dunque, anche in quello che continua ad essere uno dei core business della ‘ndrangheta a Reggio Calabria, con diversi gli episodi contestati agli indagati nell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria, tutti ai danni di imprenditori impegnati nella realizzazione di lavori ed appalti nei territori di influenza criminale della cosca. Ad altri imprenditori, invece, viene contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ritenendo che gli stessi avevano stretto un vero e proprio rapporto sinallagmatico con la cosca, versando somme di denaro o assumendo personale segnalato in cambio di protezione e aiuto ad acquisire commesse ed espandere le proprie attività, in alcuni casi anche al di fuori della provincia di Reggio Calabria.
È il mondo dell’imprenditoria reggina il protagonista dell’inchiesta “Atto Quarto” della Dda di Reggio Calabria. Due facce di una medaglia fatta di vessazioni, richieste estorsive e minacce, ma anche di promesse, appoggi e “protezione” per poter lavorare ed espandersi. Da una parte gli imprenditori conniventi con attività «sponsorizzate dalla ‘ndrangheta», così come le ha definite in conferenza stampa il dirigente della squadra mobile Alfonso Iadevaia, dall’altra chi ha deciso di denunciare perché «stare con la ‘ndrangheta è una scelta perdente». E questo tanti imprenditori sembrano proprio averlo capito, c’è chi dopo anni di giogo ha deciso che era il momento di dire basta, e di questo – da quanto emerge dalle conversazioni captate dagli inquirenti e riportate nelle carte dell’inchiesta – faceva paura ai clan: «C’è una federazione, una unione di intenti perché le cosche sapevano che richieste plurime potevano portare le vittime all’esasperazione e a denunciare», ha sottolineato il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, che a margine della conferenza stampa ha parlato di un fattore positivo: «A Reggio Calabria ci sono sempre più imprenditori che decidono di denunciare, c’è la possibilità di cambiare».
Somme variabili tra i cinquecento e i mille euro richieste per il «sostentamento dei familiari dei detenuti». È la cosiddetta “messa a posto” da parte della ‘ndrangheta, raccontata nelle carte dell’inchiesta che a Reggio Calabria ha portato all’arresto di 28 persone. Contestualmente è stato eseguito anche il sequestro preventivo di 11 società riconducibili ad imprenditori indagati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Un’indagine coordinata dalla Dda di Reggio Calabria che ricostruisce i rapporti tra gli esponenti di spicco della cosca Libri e Tegano-De Stefano e le strategie messe in atto per «rigenerarsi» ed espandersi, che vede protagonisti anche diversi imprenditori del territorio. L’aspetto forse più significativo è quello che vede proprio questi ultimi in posizioni tra loro antitetiche: c’è chi ha «sfruttato per espandersi» il potere dei clan e chi coraggiosamente si è ribellato al «tipico canovaccio di ‘ndrangheta» rappresentato dai metodi estorsivi e ha deciso di denunciare.
Le «date di mietitura classiche» sono Pasqua e Natale. La “mietitura” in questo caso è la raccolta delle somme di denaro che gli imprenditori vengono costretti a consegnare sotto minaccia. Pena: vivere nell’incubo di essere nel mirino dei clan. Lo racconta un imprenditore reggino che stanco delle vessazioni e delle minacce decide di denunciare. «Metto la mia vita nelle vostre mani», dice prima di iniziare il dettagliato racconto di un incubo dal quale esce quando inizia a tagliare i ponti con i suoi carnefici.
Le somme, racconta, «mi venivano chieste proprio a titolo di…eh… allora venivano finalizzate all’aiuto delle famiglie dei carcerati, questa era la frase classica… (…) erano finalizzate al fatto che questo mi consentiva di poter lavorare senza avere… (…) la classica messa a posto».
Le somme corrisposte vengono appuntate dall’imprenditore su un “libro mastro”.
Un incubo che dura fino a febbraio 2021. L’uomo in quel periodo inizia a frequentare le associazioni antiracket e aveva trovato il coraggio di opporre un categorico diniego alle richieste di pizzo: «Ho cominciato a tagliare questi rapporti», afferma l’imprenditore che racconta di aver iniziato a «ragionare, riflettere sulla scelta per il futuro dell’azienda, ho compreso che dovevo giocoforza a cambiare, cambiare interpretazione della… per come gestire questi problemi e quindi ho cominciato ad allontanarli, proprio ad allontanarli fisicamente nel senso a non…non accettare neanche il caffè ecco per intenderci non accettare neanche il caffè al bar, questa cosa ovviamente ha comportato un po’ di irrigidimento da parte loro, no perché hanno capito che non ero più disponibile al dialogo…».
«Se gli toccate i soldi, stai tranquillo che vi fa arrestare!… Potete stare tranquillo! Se gli toccate le sue cose…». Vittorio Quattrone si riferisce proprio a quell’imprenditore, il cui moto di ribellione aveva portato addirittura alcuni soggetti che avevano tentato di avvicinarlo a desistere per non correre rischi. E’ sempre Quattrone a evidenziare le sempre maggiori difficoltà nell’estorcere denaro agli imprenditori: «Il problema è di tutti, lo stesso problema lo abbiamo noi, ce l’hanno tutti», dice.
“Problemi” che emergono anche in un’altra conversazione, quella tra Totò Libri e Antonino Gullì, suo braccio destro – rilevano gli investigatori – la cui posizione all’interno della consorteria criminale era già emersa nell’ambito dell’indagine “Metameria”.
GULLI’: Eh… quando giravano di più i soldi… (…) Lo sai meglio di me non è…, non puoi paragonare quindici anni fa…
LIBRI: No, bravo
GULLI’: … con ora. Quindici anni con ora, dove andavi andavi ti “calavunu” soldi…
LIBRI: Ora, ora per prenderci cinquecento euro…
GULLI’: Eh, lo vedi qui?
LIBRI: ...cinquecento! Non cinquemila, cinquecento! Si esce pazzi.
GULLI’: Ma vedi, vedi che in tutti i settori è così…
I due, parlando delle varie dinamiche criminali, si lasciano andare ad evocazioni nostalgiche dell’epoca in cui era più “agevole” riscuotere il pizzo nel territorio reggino: «ora per prenderci cinquecento euro si esce pazzi».
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