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Il fotografo veneto di origine sarda che filma la natura calabrese

Andrea Crobu nuovamente in Calabria per realizzare un servizio per le campagne pubblicitarie di un celebre marchio della pesca sportiva

Pubblicato il: 23/02/2024 – 9:30
di Emiliano Morrone
Il fotografo veneto di origine sarda che filma la natura calabrese

Si esprime attraverso immagini, ma stavolta fa eccezione. Andrea Crobu è un fotografo veneto di origini sarde, un videomaker che filma la natura calabrese per campagne pubblicitarie di un celebre marchio della pesca sportiva. Da diversi anni, il professionista – che parla cinque lingue e fa il globetrotter grazie alla propria intelligenza fulminea e passione per l’ambiente – riprende pescatori, albe e tramonti sopra il mare della Calabria, il cielo terso, le luci e i colori accesi della regione. «È una terra – spiega Crobu, quarantaduenne – dalle acque pescose, dalla bellezza ancora sconosciuta, ideale per questo mio lavoro. È però grave – aggiunge – che i suoi tesori naturali debbano convivere con lo squallore prodotto dagli uomini, con montagne di immondizia e cemento che ne violentano il paesaggio, ne mortificano la storia e ne compromettono il futuro».

Calabria “terza” patria

Laureato in Comunicazione, Andrea, anche esperto di informatica, tecnologie e applicazioni digitali, ha un radicato debole per la Calabria, che considera la sua terza “patria” dopo il Veneto e la Sardegna. Nel 2007 e più avanti, infatti, si inserì nel movimento antimafia che, nato a Catanzaro sull’onda emotiva dell’inchiesta giudiziaria “Why not”, riportò al centro del dibattito pubblico nazionale i temi della legalità, della trasparenza e della partecipazione alla vita politica. Non solo, allora Andrea insegnava discipline umanistiche e scientifiche a Verona, in una scuola regionale per muratori in cui teneva spesso lezioni coinvolgenti sui princìpi della Costituzione, a partire dall’eguaglianza nei diritti, sulla lotta culturale alle mafie e sull’importanza dell’impegno delle nuove generazioni per cambiare il sistema pubblico italiano. Tra l’altro, nell’ateneo veronese organizzava incontri sul coraggio della verità, di foucaultiana memoria, con il gruppo “Legalità e Giustizia”, interno alla rete antimafia del Nord.

Il curriculum

Prima di dedicarsi alla videografia, Andrea, che conosco e cui darò dunque del Tu nell’intervista odierna, si era occupato di mappature, tramite droni, dei danni alle colture venete e, per un lungo periodo, della creazione, con sofisticati cad, di modelli tridimensionali di protesi per bambini disabili. Nel suo curriculum, poi, è solito scrivere frasi che colpiscono, tipo «frequenta e tormenta fiumi e torrenti alpini in cerca di trote, temoli e salmerini» oppure «specializzato nell’inseguimento dei tonni». Il suo sguardo sulla Calabria è perciò privilegiato, perché, pur non avendoci vissuto, ne ha potuto esaminare da vicino pregi e difetti, potenzialità e paradossi, con il desiderio spontaneo, disinteressato, del riscatto civile, economico e sociale dei cittadini calabresi. «Dal bagnasciuga in avanti la Calabria è splendida, dal bagnasciuga indietro è problematica. Perciò – racconta Andrea – i miei committenti mi hanno chiesto di tagliare l’immagine, in modo da non mostrare che cosa c’è dietro la spiaggia, piena di distese di spazzatura. Allora ho dovuto alterare la ripresa, per non far vedere l’entroterra. È terribile».

È un guaio?

«A causa dell’invasione dei rifiuti, non riesco a scattare una foto, non riesco a trovare un’inquadratura in cui non ci siano resti bruciati, flaconi di candeggina e roba diffusa ovunque. Questo rende molto difficile il mio compito e sono obbligato a levare delle sequenze. Per dirti, salendo e scendendo da Cutro, a ogni curva c’è una discarica abusiva che è terrificante da far vedere. È come se ci fosse un cantiere permanente in cui le persone si trovano a vivere. Le case incompiute con la gente dentro le vedi solo lì. Dunque, ho una pressante sensazione di amarezza. Ma com’è possibile? I calabresi pagano le stesse tasse che pago io, perché non hanno una buona strada, perché non passa qualcuno a togliere quei rifiuti? Soprattutto, perché lì buttano schifezze? La spazzatura è l’espressione più ricorrente del brutto che rovina qualsiasi foto, qualsiasi immagine. Allora, devo filmare dal bagnasciuga all’orizzonte».

Mostri una Calabria truccata?

«Per forza, io vendo immagini, quindi finzione. Ti senti sollevato quando sei sulla barca e ti allontani dalla riva per goderti i tuoi 16 metri quadri, se hai una barca grande, oppure quattro metri di ordine, pulizia, libertà ed efficienza, se ne hai una piccola».

Vai molto in giro, per esempio in Scandinavia e in Messico. Il bagnasciuga come linea di confine è, a tuo avviso, un elemento distintivo della Calabria?

«Gli scandinavi credono nell’“estetica Lego”: tutto pulitino, lindo e pinto. Ma va anche detto che lì non c’è nessuno: la Scandinavia è grande; la Svezia è due volte e mezza l’Italia e ha un sesto della popolazione. In Italia, invece, abbiamo uno sviluppo di tipo medioevale, in sostanza con un paese a ogni giornata di cammino. Quindi abbiamo una popolazione diffusa, piuttosto che concentrata. Pertanto, non abbiamo grandi estensioni selvagge tra un paese e l’altro. Da qui origina la difficoltà di gestire territori con la densità abitativa dei paesini sparsi. Non è semplice fornire servizi moderni su una mappa medievale: organizzare la raccolta rifiuti su un territorio così ampio è molto più complesso che organizzarla a Città del Messico. Poi c’è l’indecenza collettiva di mollare la spazzatura ai lati della strada, di buttarla dappertutto; non che non ci sia anche altrove, per carità, ma in Calabria si nota tanto».

Che cosa è, disprezzo per gli spazi pubblici, è un rifiuto dell’ordine che rinvia all’epoca preunitaria?

«No, è semplicemente un’abitudine al brutto. Cioè: tu sei cresciuto, hai visto quell’ambiente per tutta la tua infanzia, che dunque ora reputi normale. Ti sembra invece strano quando vai altrove e non lo trovi: lì ti rendi conto della differenza. Io sono cresciuto in Veneto, dove la raccolta rifiuti è qualcosa di maniacale: i cassonetti non esistono più, c’è il sistema porta a porta più totale e ogni tanto ti trovi un biglietto in tasca e non sai dove buttarlo perché non ci sono neanche i cestini. Perciò devi portarlo a casa e metterlo nella carta che raccoglieranno fra tre giorni. Così, impari a gestire la permanenza del tuo rifiuto, prendi coscienza perché sai che, se non lo smaltisci il giorno del recupero, rimane con te e non sparisce premendo un pulsante. Quando sei circondato da ordine e pulizia, la presenza di spazzatura diventa ingombrante a livello mentale: ne senti proprio il peso, ti dà fastidio che ci sia quella lattina che hai in mano e devi buttarla un altro giorno».

Allora?

«È un’esperienza terrificante l’incontro con una piazzola di sosta zeppa di rifiuti o con la spiaggia coperta di plastiche, di oggetti che può aver portato il mare ma nessuno ha raccolto. In Sardegna, che pure non ha un’economia florida, non esiste la stessa situazione della Calabria: lì non ho mai trovato i sacchetti di spazzatura sulla spiaggia, neanche nelle zone meno sviluppate economicamente».

Hai fatto discorsi simili con le persone che hai incontrato in Calabria?

«Ultimamente no. Ma in passato ho lavorato a Sibari, con appassionati di pesca che avevano girato in lungo e largo il mondo. Avvertivano il disagio, il disgusto per l’indecenza della spazzatura nella Sibaritide, ma da due settimane il servizio di raccolta non funzionava e quindi ogni chilometro c’era una pila di sacchi alta da due a tre metri. I calabresi pagano le tasse ma hanno servizi peggiori. È un’assurdità; in un contesto del genere, tuo figlio non può crescere serenamente. In ogni società, l’aspetto fondamentale è il trattamento dei propri rifiuti. Ai bambini si insegna subito a stare puliti. Del resto, pensa al discorso del filosofo Slavoj Žižek sull’eliminazione dei rifiuti. Žižek allude al tratto politico della Francia, quando ricorda che “il buco del gabinetto francese è posto sul retro per nascondere le feci alla vista e scaricarle il più velocemente possibile”».

Che cosa intendi dire?

«Quando vedi che il settore pubblico non ti passa nemmeno la pulizia, capisci che ci sono dei riflessi pesanti. Poi vai a pesca e scopri che tanta gente butta in acqua le cassette di legno oppure le esche. Questo è ciò che più mi colpisce ogni volta che vengo in Calabria. Ci soffro: mi fa stare male vedere in queste condizioni il vostro territorio, che è di un fascino unico, non solo dal punto di vista orografico. Poi c’è l’abusivismo edilizio. A Torre Melissa hanno recentemente demolito un palazzo mostruoso».

Che cosa spinge alla cementificazione?

«C’è una bulimia irrefrenabile nell’edilizia che consuma il territorio, forse per cercare di imporre un modello di sviluppo che non funziona. Poi c’è un’archeologia industriale, in Calabria, lasciata a decomporsi, senza piani di smaltimento. Questa situazione esiste anche in Sardegna. Se tu costruisci uno stabilimento e poi fallisce, l’edificio rimane lì a decomporsi organicamente. Si aspetta che la terra lo inghiottisca e magari ci vogliono 200 anni. Ci sono saline abbandonate che sono lì, stabilimenti vecchi che sono lì, restano lì. Non viene imposto al proprietario di ripristinare il decoro dell’ambiente».

Per esempio?

«Prima di arrivare a Crotone, vedi dinosauri industriali in attesa di diventare scheletri. A poco a poco crolleranno e chissà per quanto tempo rimarranno. Per molti che li guardano, però, sembra normale che quelle strutture si decompongano così. La bruttezza non viene portata via in alcun modo e tu ce l’avrai davanti alla faccia per tutta la vita».

Che cosa diresti al presidente della Regione, che sta provando a dare un’altra narrazione della Calabria, con grossi investimenti nella promozione del turismo?

«È una buona idea, che indica dinamismo. Tuttavia, prima di andare a stimolare la domanda, bisogna creare l’offerta. Io non posso arrivare in un luogo in cui devo fare attenzione a che cosa fotografo, se no poi la foto è brutta perché si vede la spazzatura. Prima devi pulire per terra, poi fai venire gli ospiti. Prima devi essere sicuro che ci siano servizi dappertutto, perché il territorio calabrese è stupendo, ma non possiamo visitarlo sotto forma di campeggio selvaggio o pensando di andare in un paese sperduto, in cui devi portarti tutto da casa».

In pratica?

«All’aeroporto di Lamezia Terme, per esempio, devi ancora fare la coda per prendere l’aereo: spesso trovi aperto un solo banco per il check-in e non è automatizzato il trasporto dei bagagli. Per non parlare, poi, della differenza abissale che c’è tra la costa tirrenica e quella ionica. Sul Tirreno c’è l’aeroporto con i voli quotidiani, c’è il treno più o meno veloce che arriva, c’è l’autostrada eccetera. Per attraversare la Calabria da est a ovest, non c’è verso di prendere un mezzo. Se in treno devo andare dall’aeroporto di Lamezia a Torre Melissa, impiego sei o sette ore, ammesso di atterrare in una fascia oraria in cui questo treno esiste. È un problema condizionante: sei vincolato al possesso dell’automobile. Quando accade in un posto geograficamente piccolo, vuol dire che non c’è un’infrastruttura di supporto al cittadino; vuol dire che, finché non ha l’auto, un ragazzino non esce dal suo paese».

Con quali conseguenze?

«Esiste questo tipo di sottosviluppo che impedisce la crescita di mentalità moderne, di idee imprenditoriali anche diverse, basate su approcci meno distruttivi del territorio. In Calabria hai la fortuna, paradossalmente, di essere arrivato nel 2024 senza aver avuto il boom economico vero e proprio. Hai qualche scheletro industriale rimasto dalla seconda metà del Novecento, quando ancora si produceva industrialmente e con infrastrutture ancora peggiori di quelle di adesso. Ora potresti osservare che la tecnologia è andata avanti e che potremmo fare roba molto più bella partendo da zero».

Bisogna dunque ripartire da una visione differente?

«La Calabria non è il Veneto, che deve raddoppiare la ferrovia costruita in età austriaca, che ha l’infrastruttura dell’800 e deve riuscire a riadattarla. Perché devo impiegare 45 minuti da Torre Melissa a Crotone, se rispetto i limiti? I limiti sono così bassi perché si sa che le strade non sono all’altezza di sopportare velocità più elevate. Allora, ogni giorno perdi tanti minuti per fare qualcosa. Fortunatamente, adesso la copertura del cellulare è molto buona. Paradossalmente, però, è quasi peggio, perché se tu sei povero e hai la televisione e Internet per guardare il mondo, ti rendi conto della tua condizione. Magari ti domandi perché il tuo coetaneo del Nord ha la scuola con il videoproiettore di ultima generazione, con strumenti e strutture a modo, e tu sei invece ridotto così. Perché in quel posto c’è lo skate park, la pista ciclabile eccetera, e in Calabria a malapena un parchetto?».

Però potresti sembrare prevenuto, se non addirittura razzista.

«No, io mi sento calabrese e lo dico in senso costruttivo, per contribuire a un cambio di mentalità. Quello che mi fa più male, quando vengo in Calabria, è vedere che spesso i cittadini sono trattati come servi. Allora, uno che cosa fa? Quando non ha accesso a beni e servizi, compra simboli tipici del capitalismo: l’iPhone 15 e quelle piccole cose che può acquistare individualmente perché non ha il treno ad alta velocità. Per me, Roma è a tre ore da dove vivo. So che alle sette del mattino prendo il treno, alle dieci sono lì per lavoro, faccio quello che devo, alle 13,30 riprendo il treno e alle 16 sono a casa. Provaci da Crotone, dato che la distanza è la stessa!».

I collegamenti sono un argomento della vecchia retorica sulla Calabria?

«Se tu dovessi disegnare una mappa della regione, non sulla scala geografica ma su quella dei tempi di percorrenza da un posto all’altro, la Calabria sarebbe grande come l’Inghilterra, in cui per andare da nord a sud tu impieghi giorni. In Calabria, è inconcepibile che uno vada dalla punta nord a quella sud e ritorni in giornata. Solo che questo problema, secondo me, non viene percepito per abitudine e rassegnazione. Non è un limite soltanto calabrese, ma di tutte le regioni che hanno il sottosviluppo. Quando lavoro in Messico, in aeroporto viene a prendermi un uomo che in tutta la vita non è mai uscito dalla provincia di residenza, in quanto non ha i mezzi per farlo. Viene a prendermi in auto e torna indietro. In vita sua non ha mai visto il mare, eppure ce l’ha a due passi».

In Calabria c’è, a tuo avviso, l’altra faccia della medaglia?

«Dal punto di vista ambientale, fortunatamente, dove non riusciamo a mettere le mani la Calabria è spettacolare. Sott’acqua, nei laghi della Sila, è un capolavoro. Ci sono cose incredibili, i fiumi sono pieni finché non riusciamo a metterci le mani. Quindi, tu stai andando disparatamente in cerca di zone di sottosviluppo totale, naturalmente preservate, dove non siamo ancora riusciti a mettere le mani. In Calabria hai l’impressione che tutto quello che c’è di bello da vedere non è stato fatto dall’uomo, oppure è stato fatto minimo due secoli fa».

Ormai sono tanti anni che conosci la Calabria.

«Io e te andiamo indietro di 15 anni, anzi, 17».

Allora ti interessavi di legalità e giustizia. In Calabria quanto pesa, con i tuoi occhi di oggi, la criminalità organizzata? Quanto pesa, invece, la rassegnazione, l’abitudine, la mentalità dominante?

«Sono arrivato a convincermi che l’etica sia estetica, che il valore del bello e del brutto siano reali e abbiano un’importanza esistenziale molto alta. La criminalità organizzata produce essenzialmente bruttezza: produce bruttezza morale, ritardo nello sviluppo economico, bruttezza nelle infrastrutture, bruttezza in tutto. Quando tu travalichi norme e leggi volte a tutelare la pubblica decenza, non puoi che vivere in uno stato di degrado e povertà. Se in Calabria uno prendesse 5mila euro al mese come responsabile di turno in officina, e se dunque fosse pagato come in Svezia, non penserebbe di avvicinarsi alla criminalità organizzata. Anzi, si terrebbe a distanza e ne sarebbe disgustato».

Brutto è male, allora.

«La ’ndrangheta si nutre del senso di impunità, della percepita assenza dello Stato cui si sostituisce. Solo che non si sostituisce come una comunità autosufficiente che vuole bene alla sua terra e tutela il proprio territorio, ma si sostituisce come mentalità predatoria, con un’idea talmente medievale dello spazio pubblico che può essere riassunta così: se è bello dentro casa mia, non importa che fuori ci sia lo schifo. I boss avranno la villa lastricata di oro e avorio, ma all’esterno devono fare i conti con l’immancabile spazzatura ai lati della strada, perché anche loro sono frutto di quel tipo di realtà, anche loro sono cresciuti così. Quindi hai gente che muove miliardi nello squallore. Ricordiamoci gli episodi di San Luca, quando siamo scesi giù per la prima volta: sotterranei pieni di ogni lusso e fuori la miseria totale. La ricerca della ricchezza privata a scanso della povertà pubblica produce questi paradossi. Quando in un paese con le strade bucate vedi Cayenne che girano, diffida di chi li guida».

Che cosa pensi dell’autonomia differenziata?

«Vivo nel terrore di questa prospettiva. Pensavo che fossero deliri propagandistici, ma questi sono sinceramente convinti. Se passa, i presidenti di Regione potranno privatizzare la sanità, se vorranno. Inoltre, potranno assumere i professori, potranno riscrivere i programmi scolastici e prendere decisioni terribili. L’autonomia differenziata è il frutto di un indecente accordo tra le tre forze di governo. Meloni prenderà il premierato per avere più potere; la Lega prenderà la secessione che ha sempre inseguito e porterà a casa le autonomie locali, che altro non sono che la secessione. Dal canto suo, Forza Italia, che finalizzerà l’attacco storico ai magistrati e alle leggi sul controllo della spesa, otterrà la depenalizzazione dei reati di abuso d’ufficio. Quindi penso tutto il male possibile dell’autonomia differenziata, specie perché condanna regioni come la Calabria, storicamente massacrate, alla perpetuazione del sottosviluppo più totale».

Che cosa pensi del ponte sullo Stretto?

«Metti che sia ingegneristicamente fattibile e che, schioccando le dita, magicamente domattina ce l’abbiamo. Dove stiamo andando? Arriviamo in Sicilia e poi ci mettiamo sei ore per raggiungere Palermo, perché non c’è l’autostrada in mezzo. Facciamo il passaggio per i treni e poi di là non c’è la ferrovia. Prima porti Calabria e Sicilia a un livello di sviluppo degno del ventunesimo secolo, con l’alta velocità sia in fibra ottica che in treno, con l’autostrada normale eccetera, poi fai l’infrastruttura stratosferica di collegamento tra le due realtà».

Negli anni 2007-2008 c’era una grande attenzione per la Calabria, c’erano i movimenti antimafia e in Rai si parlava molto di legalità. È finita per sempre quella stagione?

«Quella stagione è stata segnata da quello che mi piaceva definire “consumo civico”, nel senso che piaceva leggere di antimafia. C’è stata un’epoca d’oro in cui la lettura di libri e la frequentazione di iniziative specifiche erano viste come buone attività da portare avanti. Però, nel lungo periodo, abbiamo sperimentato che era soltanto una moda, che non ha prodotto quel risultato elettorale che si sperava arrivasse in virtù dell’impegno della società civile. Allora c’erano le trasmissioni di Santoro e nasceva “Il Fatto Quotidiano”. Tuttavia, quei contenuti non sono entrati nel mainstream. Noi non abbiamo speranza contro il potere di altre forme televisive, contro i reality, contro lo sport, contro tutte le altre forme di distrazione che esistono. L’antimafia funziona a seguito di eventi clamorosi».

Cioè?

«Se domattina la camorra fa saltare Gratteri, mi auguro che non accada mai, allora si ha una nuova situazione di antimafia, una nuova stagione di impegno civico, di disgusto e sdegno collettivo. Però le mafie questo l’hanno capito e stanno attente. Finché non c’è il grande caso nazionale, l’interesse per l’antimafia è limitato a qualche serie tv. Insomma, c’è stata la stagione di “Gomorra” e quella di “Suburra”, ma paradossalmente quelle serie hanno contribuito a glorificare il criminale, che viene visto come un eroe invece che come portatore di male».

Quindi, spostandoti dal bagnasciuga verso l’interno, non vedi soluzione per la Calabria?

«Io vedo una grossa opportunità nel fatto di aver aspettato così tanto per poter investire nello sviluppo: ti eviti gli orrori degli anni ’80 e ’90, quindi in Calabria c’è uno spazio interessante, se la regione riesce a esprimere una classe dirigente illuminata che capisca che non resterà più nulla, fra 30 anni, continuando con la mentalità dominante. Andiamo incontro a un inverno demografico: nei prossimi 20 anni verrà archiviata la generazione dei nati fra il ’50 e il ’60, che è la più numerosa della storia italiana. In Calabria, che ha un’alta percentuale di pensionati, ci sarà uno spopolamento folle. Se la classe dirigente non vedrà oltre la prossima tornata elettorale, si troverà a governare una regione vuota. Se poi passa l’autonomia, io la vedo molto dura; specialmente se si lascia mano libera alle realtà locali, che sono meno controllate delle realtà nazionali». (redazione@corrierecal.it)

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