Gli antifascisti calabresi e/o di origine calabrese furono tanti. Più di quanto si possa pensare. Per esempio un’antifascista di stirpe calabra fu Renato Dulbecco, nato a Catanzaro il 22 Febbraio 1914 da Leonardo, ingegnere ligure del Genio Civile, e da Maria Virdia di Tropea. Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina nel 1975, formò la sua anima antifascista nello studio del professor Giuseppe Levi, direttore dell’Istituto di Anatomia Umana dell’Università di Torino, insieme ad altri due premi Nobel per la Medicina, Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini. Un trio di scienza, conoscenza e coscienza. Tutti antifascisti.
Anche se la Resistenza si svolse al di sopra della cosiddetta Linea Gotica furono molti i partigiani calabresi che parteciparono, direttamente o indirettamente, alla guerra di Liberazione. L’archivio dell’Anpi ne censisce 1.849 di cui 49 donne. A questo numero bisogna aggiungere i combattenti che furono uccisi dai nazifascisti al lato della guerra della Resistenza, solo perché si dichiararono antifascisti.
Delle donne partigiane ce ne furono alcune che si misero in luce per il loro attivismo, o come staffette partigiane oppure come militanti a pieno titolo. Ricordiamo Anna Cinanni di Gerace (sorella del più noto Paolo, dirigente del Pci), Anna Condò di Reggio Calabria (il fratello Ruggero era membro della terza Brigata Garibaldi in formazione tra Piemonte e Liguria), Caterina Tallarico di Marcedusa (il fratello Federico fu comandante partigiano con il nome di “Frico”), Giuseppina Russo di Roccaforte del Greco (insieme al marito Parco Perpiglia erano dirigenti in Liguria), Tina Pontoriero di San Ferdinando (nome di battaglia Maia), le sorelle Maria e Bice Tocco di Tropea. Cui si può aggiungere Teresa Talotta Gullace di Cittanova (la città di Roma le ha intitolato un’importante scuola), che ispirò il regista Rosselli nel film “Roma città aperta”, affidando il ruolo della caduta per mano delle SS ad Anna Magnani.
La storia di Giuseppina Russo è stata raccontata dal sociologo Claudio Cavaliere nel libro “L’ape furibonda (Rubbettino, 2018). Nello stesso saggio è stato ricordato che nelle elezioni del 1946 in Calabria furono elette tre sindache (in tutta Italia ne furono elette 12): Lydia Toraldo Serra, a Tropea; Caterina Tufarelli Pisani, a San Sosti; Ines Nervi Carratelli, a San Pietro in Amantea.
Il 2 giugno 1946 è ritornato, con grande successo di pubblico, nel film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”.
Insomma, le donne calabresi parteciparono alla politica e dettero corpo allo spirito antifascista su cui si fondava la neonata democrazia italiana. Questo dato ci lascia intuire che, durante la Resistenza, le donne calabresi non furono soggetti passivi ma parteciparono attivamente ai flussi sociali che stavano attraversando la penisola.
Tra gli uomini si eleva la figura di Federico Tallarico, medico, nato a Marcedusa il 20 giugno 1917, piccolo centro agricolo del catanzarese, che da ufficiale del Regio esercito preferì la libertà e la democrazia diventando un comandante partigiano. Col nome di battaglia “Frico”, fornì alla brigata partigiana autonoma la sua cifra. Molti militari calabresi che, dopo l’8 settembre si trovavano a migliaia di chilometri di distanza dalle proprie case, sia nell’impossibilità di poter ritornare in sede che nella consapevolezza di dover continuare a combattere contro l’ex alleato germanico, iniziarono ad alimentare le fila della resistenza in vari ruoli. Prova ne sono, ad esempio, le tre medaglie d’Oro al Valor Militare alla memoria di tre ufficiali: Aldo Barbaro e Vinicio Cortese di Catanzaro e Saverio Papandrea di Vibo Valentia; e poi: Carmine Fusca di Limbadi, Pasquale Staglianò nato a Bagnara e residente a Vibo Marina, Francesco Restuccia di Joppolo, Francesco Restucci di Tropea, Pino Scrivo (detto Aramis) di Serra San Bruno, Francesco Vallelonga (detto Fanfulla) di Nardodipace, Domenico Mazzitelli di Zaccanopoli; nella provincia di Crotone: i fratelli Giulio e Franco Nicoletta, il sacerdote don Pietro Capocasa di origine marchigiana, Giuseppe Pace di Petilia Policastro; nella provincia di Cosenza: Franco Bugliari di Santa Sofia d’Epiro, Raffaele De Luca di San Benedetto Ullano, Ubaldo Montalto di Cosenza, Salvatore Marco De Simone e Giovanni Aceto di Rossano, Vincenzo Errico di Verbicaro, Geniale Bruni di Aiello Calabro, Dante Castellucci (detto Facio) di Sant’Agata d’Esaro, il tenete colonnello Franco Castriota di Castrovillari; i partigiani di lingua arbëreshë; i partigiani della provincia di Reggio Calabria: Aldo Chiantella di Reggio, Vittorio Calvari, friulano ma residente a Campo Calabro, Pasquale Brancatisano (detto Malerba) di Samo, Marco Perpiglia di Roccaforte del Greco; i lametini Gaetano Renda di Sambiase e Domenico Petruzza ed Emilio La Scala di Nicastro. E altri ancora.
Federico Tallarico, intervistato dallo storico Mario Saccà, fra l’altro, disse: «La scelta di imbracciare le armi non scaturiva da motivazioni politiche né di benevolenza verso la Monarchia, bensì prettamente da ispirazioni patriottiche e dalla necessità di contribuire a liberare l’Italia dall’oppressione nazi-fascista. Non capendo nulla di politica è emersa la volontà di rimanere autonomi, anche se inquadrati nella divisione “De Vitis”, che solo organizzativamente dipendeva dal Comitato di Liberazione Nazionale».
Ma come erano organizzate le brigate autonome? Ancora la sua parola: «Le brigate autonome, come la mia, avevano un’impronta ed organizzazione militare che le differenziava da quelle esclusivamente politiche come le Garibaldi, Matteotti e Giustizia e Libertà. Ogni azione veniva pianificata scrupolosamente con lo scopo, non solo di raggiungere gli obiettivi assegnati, ma anche di ridurre la possibilità di perdere molte vite umane; tant’è che in totale ci furono una quindicina di caduti tra i miei sottoposti, pur avendo partecipato a vari combattimenti, proprio per il fatto di aver pianificato per bene le azioni ed evitato inutili scontri frontali. Sulla mia uniforme da combattimento ho mantenuto sempre le stellette».
Frico partecipò a numerose azioni rischiose. La più significativa delle quali fu la cattura, solamente con 8 partigiani, di ben 36 nazi-fascisti a Cumiana. Suo compagno di lotta fu Eugenio Fassino, il padre di Piero Fassino, il quale, alcuni molti anni fa, venne a trovarlo nella sua casa di via Schipani a Catanzaro.
Ma ci furono anche militari semplici che furono uccisi dai nazifascisti
Come il catanzarese Ettore Arena (Catanzaro, 17 gennaio 1923 – Roma, 2 febbraio 1944) che fu soldato e partigiano al tempo stesso. Egli, in servizio come allievo elettricista nella Marina militare, si trovava a Venezia al momento dell’armistizio di Cassibile. Sfuggito alla cattura da parte dei tedeschi, riuscì fortunosamente a giungere a Roma, dove risiedevano i suoi familiari. Nella capitale, prese parte alla resistenza armata militando, sin dall’ottobre 1943, nelle file del movimento Bandiera Rossa. Nel dicembre dello stesso anno, Arena fu arrestato con altri membri della sua formazione e un mese dopo fu processato da un tribunale di guerra tedesco. Condannato a morte con altri coimputati, il giovane fu fucilato con loro a Forte Bravetta. Condotto davanti al plotone di esecuzione, lo affrontò con animo e contegno di fiero soldato, strappandosi la benda dagli occhi cadendo in fine col nome dell’talia sulle labbra. Fu insignito di medaglia d’oro al valore militare.
Arena è stato un eroe dimenticato dai contemporanei, se non fosse per la via che gli ha intitolato il Comune di Catanzaro.
Ricordiamo, infine, che anche l’attore di Raf Vallone (di Tropea), già redattore de l’Unità e ala destra della squadra del Torino in serie A, fu partigiano nelle fila di “Giustizia e Libertà”. Uno degli amici più stretti di Raf Vallone fu Cesare Pavese che nel 1935 fu confinato dai fascisti a Brancaleone.
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