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Nel libro di Pavese, quadri folgoranti di una Calabria che «aveva una sua bellezza se non anche una sensualità»

La nuova edizione propone un’opera di grande valore per chi voglia provare a capire la Calabria attraverso lo sguardo di un forestiero illustre

Pubblicato il: 28/07/2024 – 10:00
di Francesco Bevilacqua*
Nel libro di Pavese, quadri folgoranti di una Calabria che «aveva una sua bellezza se non anche una sensualità»

Esce per i tipi di Rubbettino una nuova edizione del romanzo di ambientazione calabra, “Il Carcere”, di Cesare Pavese (Santo Stafano Belbo 1908 / Roma 1950). Pavese scrisse il romanzo ricordando il suo confino politico a Brancaleone, sulla costa ionica meridionale della Calabria, fra il 4 agosto 1935 ed il 15 marzo del 1936. Il romanzo fu pubblicato inizialmente da Einaudi insieme ad altri romanzi di Pavese. La nuova edizione, con l’introduzione di Monica Lanzillotta e la foto di copertina (che ritrae i famosi calanchi di Brancaleone) di Angelo Cavallaro, colma quindi una lacuna e ci propone un’opera di grande valore per chi voglia provare a capire la Calabria, in questo caso attraverso lo sguardo di un forestiero che venne quaggiù non per sua scelta.

Nell’approcciarsi al libro non bisogna attendersi la grande partecipazione emotiva per la gente del Sud che ebbe Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”. Pavese non era mosso dagli stessi interessi culturali, antropologici e politici. Il titolo stesso del romanzo tradisce lo stato d’animo dell’autore verso il luogo del confino. La Calabria che Pavese scoprì a Brancaleone – e che descrisse nel romanzo – era la Calabria letargica, rinchiusa su se stessa, quasi “moribonda”, uscita dai terremoti di inizio secolo, dalle epidemie e dalle carestie, dall’emigrazione di massa, dalla tragedia della prima guerra mondiale e, infine, dalla stolidità del regime fascista, che quella geografia apparentemente liminare ed arcaica tentava di nascondere perché sintomatica di un’arretratezza e di una miseria inconciliabili con le glorie coloniali e la retorica fascista. La vita di Brancaleone raccontata da Pavese è, dunque, non quella corale e, a suo modo, epica dell’Aliano di Levi. È piuttosto il ricordo dello stato d’animo dell’autore dinanzi allo sradicamento dalla vita urbana e culturale ed all’impatto con una realtà ferma mille anni indietro.

Eppure, negli episodi gradualmente evocati dall’autore emergono quadri folgoranti di un mondo che aveva una sua bellezza se non anche una sensualità. In diversi punti del romanzo, Pavese coglie l’intima connessione di quel mondo con la grecità: il paesaggio, la cortesia verso il forestiero, il senso del mito, il mistero di certe figure femminili. Occhiate caute e nello stesso tempo rassicuranti accolgono, da dietro gli usci e le finestre, dalle seggiole dell’osteria, l’esule Stefano – nel romanzo è questo il nome del protagonista raccontato in terza persona –, l’ingegnere venuto dal Nord. Stefano subisce il confino, non accetta la vita in quel villaggio sperduto, anela alla fuga, alla liberazione, al ritorno nella sua città. E tuttavia stringe amicizia con tutti, discorre all’osteria con gli avventori, segue qualcuno nelle scorribande sulle colline dell’interno, è in buoni rapporti con diversi protagonisti di quella vita. C’è qualcosa in quella gente, in quel posto che egli tenta di respingere, che pure attrae Stefano, lo incuriosisce, lo affascina. È come se il luogo, il paese, l’altro paese, quello vecchio, le cui rovine giacciono ancora oggi fascinosamente artigliate su una collina, la natura, il mare, la spiaggia, le montagne tutto dica a Stefano parole attonite sulla condizione tragica (e per questo mitica) dell’uomo.

E Stefano avverte in tutto ciò sensualità e bellezza. Una bellezza, intendiamoci, selvatica e triste, ma tuttavia a suo modo attraente e seduttiva. In questa sensazione una parte preminente – strano a dirsi – hanno le donne del paese. Come Elena, l’amante di Stefano. Elena, che Stefano possiede ripetutamente nella sua stanza vuota e malinconica. Dove pure Elena compare e scompare e ricompare, fedele e segreta, materna e remissiva, cauta e possessiva, rassegnata infine quando Stefano le annuncia la partenza. È una donna reale, che viene silenziosa e va via altrettanto silenziosa. È tuttavia essa stessa una divinità, Demetra forse. Stefano, infine, dopo aver goduto tante volte del suo corpo rassicurante, della sua passione inattesa, la abbandona al suo destino nello sperduto paese. Dove però, il lettore ha la certezza che Elena tornerà alla vita di sempre, senza proteste, senza rancori, forse con segreto rimpianto. Perché Elena è l’incarnazione stessa di quel luogo, di quella terra. È la rassegnazione, la malinconia, il duro mestiere di vivere.

*Avvocato e scrittore

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