VIBO VALENTIA Il Tribunale «tiene conto solo parzialmente di quanto offerto a dibattimento» senza «perimetrare adeguatamente tutti i contributi offerti». Ne sono convinti i pm del pool antimafia della Distrettuale di Catanzaro che hanno presentato appello per 31 imputati del processo “Petrolmafie”, nato dall’omonima inchiesta coordinata con gli uomini della Guardia di Finanza e portata a termine nel 2021. Tra le 31 posizioni appellate, in particolare, la Dda si è concentrata su due imputati assolti: Irina Paduret (moldava classe 1986) e Francesco Saverio Porretta (milanese classe ’74) per i quali l’accusa aveva chiesto, invece, 16 anni di reclusione.
Secondo la tesi accusatoria, che non ha retto davanti ai giudici del Tribunale collegiale di Vibo Valentia, i due sarebbero «broker operanti in territorio milanese e legati, in particolare, ad alcune figure chiave dell’inchiesta: Antonio Prenesti – condannato oggi a 15 anni – ma anche Giuseppe D’Amico, Lugi Mancuso e Silvana Mancuso». Sempre secondo l’accusa, inoltre, i due fungevano da anello di collegamento tra la cosca Mancuso ed importanti fornitori – italiani e stranieri (quali quelli rappresentati da Lavazza Renato, ovvero i kazaki della Rompetrol, rappresentati da Arman Magzumov) – di carburante, mettendo a disposizione del sodalizio il loro patrimonio di conoscenze – tecniche e commerciali – e le loro entrature nel settore della commercializzazione del carburante, per consentire al sodalizio il reperimento di nuovi canali di approvvigionamento – anche con modalità illecite – così accrescendone la forza economica e criminale e la capacità di infiltrazione nello specifico settore di interesse dell’organizzazione».
In particolare, la Dda punta su una frase pronunciata da Silvana Mancuso (e intercettata) alla presenza di D’amico Giuseppe, Prenesti Antonio, Porretta Francesco e Paduret Irina e con riferimento ai due milanesi: «(…) loro senza di noi non fanno niente (…) loro senza me non fanno niente». Secondo la tesi dell’accusa, inoltre, innanzitutto è stato dimostrato come i due broker milanesi «siano stati introdotti al clan Mancuso da Antonio Prenesti» riconosciuto dal Tribunale quale partecipe dell’associazione mafiosa, e che questi «abbiano condiviso gli scopi dell’associazione e abbiano recato un contributo al sodalizio operante a Limbadi», scrivono ancora nell’appello, mettendo in contatto il gruppo «D’Amico-Prenesti e Silvana Mancuso con alcuni investitori esteri, assicurando il loro impegno concreto nella gestione delle trattative e nell’attività di mediazione».
Altro affare menzionato dalla Dda è, poi, quello con Renato Lavazza. Anche in questo caso i due broker milanesi avrebbero svolto il ruolo di “link”, soprattutto quando «Giuseppe D’Amico e Antonio Prenesti, insieme a Francesco Porretta, dopo aver parlato al telefono con Lavazza, concordava con D’Amico che, per intavolare gli argomenti, bisognava “andare a parlare di persona”». E la Dda riporta uno stralcio di una conversazione: «(…) andiamo di persona ed io gli dico che gli faccio un bel lavoro…io fino a giorno…prima del…di capodanno…della fine dell’anno facevo…25…30 macchine a settimana…». Secondo i pm dell’Antimafia, dunque, «sebbene nessuno dei due affari intavolati per conto della cosca sia andato a buon fine in concreto, non si ritiene mutata la posizione soggettiva con riferimento alla “messa a disposizione” dei due broker in favore del sodalizio criminale, tanto nei confronti del suo capo indiscusso Luigi Mancuso». L’accusa è convinta che Francesco Porretta e Irina Paduret abbiano «instaurato con la cosca Mancuso un rapporto di reciproci, illeciti, vantaggi, consistenti per i due broker nell’aver ottenuto clienti di spiccata potenza finanziaria, con i quali avevano intenzione di concludere svariati affari, sia nel settore dei carburanti che in quello immobiliare e avere, quindi, rilevanti prospettive di guadagno, e per la consorteria, nell’ottenere risorse, servizi e/o utilità».
Secondo i giudici i due imputati «risultano coinvolti unicamente nella trattativa con la Rompetrol, nell’ambito della quale svolgevano un’attività di intermediazione tra gli esponenti della compagine calabrese e i kazaki». Quindi «sotto tale profilo, deve attribuirsi rilievo dirimente all’esito dell’affare, atteso che l’insuccesso delle trattative produce delle inevitabili conseguenze sul piano dell’elemento materiale del reato, non potendosi ravvisare alcun contributo concreto in favore dell’associazione». (g.curcio@corrierecal.it)
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