Camminare nel presente

A Cavallerizzo politici, tecnici, studiosi, fotografi, anche poeti sono stati attratti da ciò che finiva, dalle rovine, da chi restava. La maggior parte delle immagini utilizzate riguarda la vecchia Cavallerizzo, mentre gli abitanti della nuova Cavallerizzo, che comunque camminavano, vivevano, venivano lasciati soli anche nelle scelte più difficili. Ciò che è morto è più accettabile, controllabile, spiegabile di quello che sta nascendo, che non riusciamo a capire e che abbandoniamo a sé stesso, salvo poi lamentarci che non è venuto bene, che è peggiore dell’antico. Alla fine, credo che si debba riconoscere che la gente di Cavallerizzo, da sola, davanti ai grandi burocrati, magari accettando decisioni degli altri, ha davvero cercato di «fare un paese», non quello immaginato e venduto dall’alto e dall’esterno, ma quello che sono riusciti a fare, con limiti e difficoltà, con le loro forze, i loro errori, i loro conflitti, le loro lacerazioni, che adesso appaiono inutili. Se tutti noi mettessimo cura e attenzione nel nostro rapporto quotidiano con i luoghi, forse, potremmo evitare o attenuare i danni delle catastrofi. Se tutte le energie, la forza, la volontà di reagire, l’impegno, la partecipazione che mettiamo nelle emergenze fossero profusi nella quotidianità, probabilmente certi disastri non avverrebbero. Forse, il senso del limite, della fragilità, del rischio, delle calamità dovuto a un’esistenza precaria spingeva le comunità del passato a un diverso legame con la natura, l’ambiente, il mondo animale, il senso del sacro.