Se gettare benzina sul fuoco della polemica politica, se cercare di alimentare i punti dirimenti, le distanze, lo scontro a ogni livello con la strumentalizzazione è un’operazione da sciacalli, mettere la testa sotto la sabbia di fronte ad accadimenti gravissimi è ancora peggio. Un fenomeno che, per portata e conseguenze, impone una declinazione erga omnes. Per tutti.
Il decesso del giovane Serafino Congi, a San Giovanni in Fiore, l’antivigilia dell’Epifania, impone tanto silenzio, che si registra in città, passata improvvisamente dalle bollicine della festa al clima plumbeo di un pomeriggio surreale. Drammatico. All’indignazione sociale generalizzata, perché è un accaduto gravissimo che, “senza tanti ma e se”, senza alcuna riserva o dubbi di sorta, bisognava e si poteva evitare: questo occorrerà spiegare, un giorno, alle due piccole bambine che lascia il giovane professionista.
Sui fatti, i particolari, la necessità di ricostruire note ufficiali intorno all’angosciosa vicenda tocca alla Magistratura, all’indagine in corso fare chiarezza. Non può mancare uno spazio, comunque, per una lettura a margine, sine ira et studio, che richiama l’intera Comunità florense a prestare somma vigilanza e attenzione. Forte è, infatti, il vulnus dentro il senso di giustizia, di umanità, di coscienza morale, che equivale a determinare uno stato di fortissimo risentimento, perché, senza cadere nei fiumi lutulenti della retorica e nella logorrea limacciosa del tifo, la sacralità della vita è inviolabile. Questo è, questo è stato calpestato – sembrerebbe. Se è vero che tre ore bastano per salvare una persona, che sono anche tante per impedire che accada tragicamente. A meno che il CAP non rimanda alla Calabria, all’entroterra calabrese, a San Giovanni in Fiore, comune di alta montagna che non ha eguali in Europa, per caratteristiche orografiche e abitative.
C’è una dato, e fa riflettere molto: è seriamente compromesso il diritto alla salute, che è frutto di un progressivo e vertiginoso, negli ultimi decenni, indebolimento della rete ospedaliera, della medicina del territorio, della sanità pubblica, in generale. Un problema che, a dire il vero, è continentale e nazionale (oltre 500 mila posti letto in meno, dal 1980 ad oggi), ed è un macigno gigantesco al Sud, nelle aree interne della Calabria, in particolare. Che significa messa in discussione di un diritto costituzionale, degli elementi di base che sono stati una conquista sanitaria dell’Italia repubblicana, i LEA e l’emergenza-urgenza. La storia tragica di Serafino, rientrati gli istinti del momento, non può essere derubricata, passare inosservata, consegnata alla cronaca abbandonata alle spalle.
Non esiste pezza giustificativa della contingenza metereologica della nebbia, dell’assenza di un’ambulanza medicalizzata che, sopraggiunta da Cosenza, ha visto svanire l’imponenza dell’utilità. Non si può accettare che il momentaneo operato di un medico fuori sede, per altro soccorso, impedisca la tempestività del trasferimento in strutture attrezzate, con il rischio di identificare responsabilità nel personale medico e paramedico sottoposto, invece, a una mole di lavoro che porta avanti con sforzi e professionalità, ma che non regge più per la disparità tra personale e richieste da evadere. No, qui c’è in ballo un problema di civiltà, di dignità di un popolo che vive le condizioni oggettivamente disagiate della montagna. Un popolo che merita il minimo: il diritto di curarsi e di vedersi salvare la vita, in caso di necessità. Non è il momento di cercare colpe e responsabilità, è una fase nuova, con modi e strumenti diversi, quella che bisogna seguire e costruire. In una logica d’insieme che faccia perseguire le ragioni dell’unità a tutte le Istituzioni presenti sul territorio. E non di meno alle associazioni, al mondo della Chiesa, della scuola, del sindacato. Ci sarà tempo per la spada e il fioretto, rimarcare appartenenze e alzare muri elettorali. Il presente è ora. E una proposta immediatamente fattibile, da sottoporre razionalmente e celermente a livello regionale può essere elaborata da maggioranza e opposizione. San Giovanni in Fiore è una costola dello Stato italiano, un ente locale, sua immagine e rappresentazione in periferia. Un’autonomia locale con le sue prerogative sociali e culturali. Per questa ragione bisogna uscire dalla stagione degli indici, spesso prevenuti, puntati addosso alla ricerca di responsabilità, della demagogia d’accatto. C’è in ballo una partita troppo grossa, che è legata a doppio filo alla sanità: il futuro della città. Diversamente, parlare di resilienza, di ripopolamento, di sforzi per evitare il gelo demografico si consoliderà presto come esercizio di mero e inconcludente filosofeggiare. È un scatola cinese (sociale) che si può tentare di ricomporre o scomporre definitivamente. Lavoro, servizi, politiche giovanili, incremento e potenziamento del tessuto demografico, in pieno depauperamento. E si capisce che la sanità, il diritto alla salute si elevano a condizione imprescindibile. La morte di Serafino attraversa vergognosamente tutte le vie di San Giovanni in Fiore, si infila nel cuore di esse come una lama, un macigno pesantissimo che difficilmente si può rimuovere, se non nei termini di fare in modo che non accada mai più. E resta a margine di una pagina che fa tanto male, una pagina triste e mesta, che nessuno avrebbe voluto leggere. “Io non so fare una preghiera, chiedo solo quello che si avvera, così sono sicuro che non si perda nessuno”- parole universali di un cantautore bolognese, risalendo San Luca, dopo l’esperienza della malattia.
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