Domenico Cannata aveva 47 anni. Era nato a Polistena e dopo una vita di sacrifici, era riuscito a diventare un imprenditore di successo nel settore della lavorazione del marmo. Ci era arrivato partendo dal basso, iniziando a fare l’elettricista, il mestiere del padre, per poi crescere ed evolversi. Una persona onesta, affidabile, un punto di riferimento per la comunità di cui faceva parte. In tanti si affidavano alla sua esperienza per i lavori più complessi. Era un uomo sempre sorridente, generoso, aveva gli occhi buoni. Dopo il matrimonio con Concetta, erano arrivati quattro figli: Teresa, Marino, Francesco ed Espedito.
La notte del 16 aprile del 1972 è una domenica come le altre. L’intera famiglia Cannata è a letto, nella casa di via Matrice. È l’1.30 e stanno tutti dormendo quando vengono svegliati da un boato violento, sembra una bomba. È una bomba. Un fragore vicinissimo che preoccupa l’intera famiglia. Domenico si affaccia alla finestra, vede del fumo, ha paura che entri in casa e decide di andare a controllare al piano di sotto che tutto sia a posto. Chiede a sua moglie Concetta di tranquillizzare i figli, prima, però, è lui a farlo: «State con mamma, vedo cosa è accaduto e torno».
Scende le scale, cerca l’interruttore centrale per staccarlo, apre la finestra e proprio in quell’istante esplode una nuova bomba: i vetri frantumati, i mobili devastati, un fumo denso che lo sommerge, quasi lo fa scomparire. Domenico ora è a terra, ferito gravemente, non si muove. Concetta e i suoi figli scendono immediatamente al piano di sotto e l’immagine che si trovano davanti è sconvolgente, gli occhi piccoli e assonnati dei figli di Domenico vedono il padre ridotto a pezzi. Concetta chiede subito aiuto e la corsa all’ospedale Santa Maria degli ungheresi è disperata. I medici fanno di tutto per salvare quell’uomo che conoscono bene, ma dopo più di due ore di tentativi, devono arrendersi. Domenico muore così, alle 5 del mattino, in primavera, ancora col buio, in un modo barbaro, impensabile per un uomo come lui.
Il giorno dopo, di quell’attentato che è costato la vita a Domenico Cannata parlano tutti, e non solo a Polistena, non solo in Calabria. L’Unità scrive di una prima bomba ad alto potenziale esplosa nella centralissima piazza della Repubblica di Polistena «presso la saracinesca di un bar dei fratelli Andriello, un’agiata famiglia del luogo». Cinque minuti dopo la seconda esplosione, sul davanzale della finestra in cui abitavano i Cannata.
«I fratelli Andriello ed Espedito, quest’ultimo suocero del Cannata – scrive ancora il quotidiano fondato da Antonio Gramsci – tempo addietro avevano ricevuto delle lettere con la richiesta di trenta milioni che avrebbero dovuto pagare per essere protetti».
La Stampa di Torino focalizza l’attenzione su un probabile «regolamento di conti», «ma può anche darsi che il Cannata sia stato ucciso da una banda di taglieggiatori ai quali forse non aveva voluto versare una eventuale tangente».
Per il giorno dei funerali il comune di Polistena proclama il lutto cittadino e si prende in carico tutte le spese della funzione. Il paese è in lutto, non può crede a ciò che è accaduto. Perché uccidere un uomo per bene come Domenico? E poi in quel modo.
Le indagini degli inquirenti vagliano più piste, dal legame di quell’atto tremendo con la banda di Giuseppe Scriva (latitante rosarnese di 26 anni, tra i più pericolosi d’Italia, che in una rapina alla Banca Popolare di Polistena aveva ucciso con i suoi complici quattro persone) alle richieste estorsive rivolte al padre di Concetta, imprenditore e proprietario terriero. Richieste incessanti e minacce a cui l’intera famiglia, Domenico in testa, non si era mai piegata. Fino a quella terribile notte, quando una bomba ha spazzato via la serenità di una famiglia normale, pulita.
La ricostruzione dell’omicidio parla di due bombe: una prima carica di tritolo indirizzata ai proprietari del bar di piazza della Repubblica, anche loro vittime di richieste estorsive, e poi quella per Domenico Cannata, ancora più potente della prima, esplosa nel momento in cui l’imprenditore, dopo aver visto il fumo dalla finestra, aveva staccato il contatore per evitare un incendio.
Alla fine, gli investigatori sono certi: Domenico ha pagato con la vita la decisione di dire no alla criminalità organizzata. I colpevoli del suo omicidio, però, non sono mai stati individuati e soltanto nel 2005 l’imprenditore è stato riconosciuto ufficialmente vittima di ‘ndrangheta. A più di 50 anni di distanza da quell’evento drammatico, la figlia di Domenico, Teresa Cannata, continua a chiedere giustizia per suo padre. Dal 2007, insieme ad altri parenti vittime innocenti di mafia, fa parte dell’associazione “Piana libera”. (f.veltri@correrecal.it)
Il Corriere della Calabria è anche su Whatsapp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato
Senza le barriere digitali che impediscono la fruizione libera di notizie, inchieste e approfondimenti. Se approvi il giornalismo senza padroni, abituato a dire la verità, la tua donazione è un aiuto concreto per sostenere le nostre battaglie e quelle dei calabresi.
La tua è una donazione che farà notizia. Grazie
x
x