Il 23 giugno del 1967 a Locri sembra un giorno come un altro. È mattina presto, le 7.30 circa, e Carmelo Siciliano, un commerciante ortofrutticolo di 39 anni, è appena giunto in paese con il suo camion da Antonimina per acquistare al mercato rionale frutta e ortaggi che dovrà consegnare ad alcuni albergatori. Un lavoro abituale, che compie ogni settimana: riempie i cesti, li carica sul mezzo e torna indietro. Ha quasi finito il suo compito, intorno a lui si è assiepata già tantissima gente, un centinaio di persone, quando all’improvviso nella piazza irrompe un’automobile bianca, una Fiat Giulia targata RC, a bordo ci sono quattro persone. Ferma la sua corsa a pochi passi da Carmelo Siciliano e in un attimo scendono tre uomini, sono armati di mitra a canna corta, fucile caricato a lupara e pistola. Uno di loro indossa una tuta da meccanico e ha un fazzoletto che gli copre il viso. Si rivolge ai due uomini che sono accanto a Carmelo, gli ordina di guardarsi. Poi spara due colpi, a cui ne seguono altri. Le persone presenti nella piazza provano a fuggire alla ricerca di un riparo, c’è chi urla, alcune donne, scioccate, perdono i sensi, i bambini che sono con loro piangono. Uno degli uomini che era accanto a Carmelo viene colpito alle spalle e cade tra le ceste del banco che gestisce. Carmelo è centrato al petto e alla testa da quattro proiettili di mitra, l’altro uomo che gli sta vicino viene ferito gravemente. Due anziani che tentano coraggiosamente col proprio corpo di rallentare la corsa dei malviventi, restano feriti a loro volta ma in modo lieve.
Gli autori di quella strage hanno appena scaricato una quarantina di colpi senza alcuno scrupolo, senza badare a niente e a nessuno, e ora possono andarsene. Salgono in macchina e a Locri per qualche minuto piomba un silenzio tetro e surreale.
Le ambulanze giunte sul posto, caricano i tre feriti più gravi per portarli in ospedale, ma la loro corsa disperata è inutile. Carmelo Siciliano perde la vita insieme agli altri due uomini che non conosceva e a cui era stato chiesto di guardarsi in faccia prima degli spari. Si tratta di Domenico Cordì, 42 anni, guardiano di agrumi ed esponente dell’omonima cosca di ‘ndrangheta, e Vincenzo Saracino di 37 anni, ortofrutticolo e anche lui legato ai clan locali. Tra le persone colpite non gravemente dai proiettili c’è anche il brigadiere dei carabinieri Giuseppe Naccarato che dopo aver sentito gli spari e le urla della gente, si era precipitato nei pressi di piazza del mercato per ostacolare la fuga della Fiat Giulia. Con la sua pistola era riuscito a sparare contro l’auto frantumando il vetro posteriore, ma nulla di più.
La Fiat Giulia viene ritrovata dai vigili del fuoco dopo un paio d’ore in contrada Zomaro, a 24 chilometri dal luogo della tragedia. È per metà carbonizzata, i banditi, prima di fuggire a piedi o con l’aiuto di un complice, hanno provato ad incendiarla. Si scopre che quell’autovettura è di proprietà di un medico di Melito Porto Salvo a cui era stata rubata il 19 maggio, più di un mese prima dell’agguato.
Il percorso dei killer che li ha portati in piazza del mercato è stato il seguente: Gerace, Statale 111 e poi Locri, passando da via Garibaldi, via Gusmano, piazza Municipio e viale Trieste, prima di raggiungere l’obiettivo. Per fuggire hanno percorso lo stesso tragitto, forse questo – si ipotizza – sta a significare che non erano della zona. All’interno del mezzo sono state trovate alcune tracce di sangue, probabilmente i colpi di pistola del brigadiere Naccarato hanno colpito uno dei banditi, ma non ci sono elementi per scoprirne l’identità e per comprendere quali siano le ragioni di quell’atto tanto crudele.
Nei giorni successivi alla strage di Locri, gli inquirenti vagliano più piste. Si comprende subito che dei tre uomini uccisi dai sicari, uno, Carmelo Siciliano, non era un obiettivo. Non aveva precedenti e si trovava lì per lavoro, per caso a pochi passi da Cordì e Saracino. Polizia e carabinieri, però, si mostrano impreparati, non sanno come muoversi, e il mistero si infittisce.
Domenico Cordì era stato per anni luogotenente del boss Antonio Macrì di Siderno. Il padre di Vincenzo Saracino, Francesco, era stato in carcere per estorsione e associazione a delinquere e la sua forza criminale nel territorio era passata nelle mani di Macrì grazie soprattutto al sostegno di Cordì.
Gli investigatori arrivano alla conclusione che i rapporti tra Domenico Cordì e Vincenzo Saracino erano tutt’altro che idilliaci. Il motivo principale riguardava l’omicidio, avvenuto qualche anno prima, di Antonio Saracino, fratello diciannovenne di Vincenzo, ucciso con un colpo di pistola in fronte perché aveva osato ribellarsi pubblicamente alla supremazia criminale di Macrì. Per quella morte, era stato arrestato, insieme ad altre persone, Domenico Cordì, ma il conseguente processo in Corte d’Assise a Melfi, aveva scagionato tutti gli imputati. Quell’assoluzione pare non avesse, però, migliorato i rapporti, tra le famiglie Saracino e Cordì. Almeno questo pensano gli inquirenti. E allora perché il 23 giugno del 1967 Domenico e Vincenzo erano uno di fronte all’altro nella piazza del mercato? E, soprattutto, perché i killer li hanno uccisi?
Le domande si sprecano, come le ipotesi. Secondo alcune voci di paese in quell’agguato doveva morire soltanto Saracino su ordine di Cordì che gli aveva teso un tranello. Un errore fatale dei killer aveva portato alla morte di entrambi. Ma è un’idea fragile, che si spegne quasi subito. Col tempo si arriva alla certezza che quegli omicidi hanno a che fare con le nuove alleanze e gli affari illeciti della malavita nell’edilizia e negli appalti stradali in cui Cordì e Saracino erano coinvolti pienamente. Soprattutto Domenico Cordì era intenzionato ad impadronirsi di alcuni settori strategici come l’ortofrutta, i trasporti e gli appalti stradali. Ma era stata la sua intenzione di appropriarsi un carico di stecche di sigarette da contrabbando inviate da Cosa Nostra al boss sidernese, a decretare la sua condanna a morte. Un vero e proprio affronto al suo vecchio boss Antonio Macrì.
Il processo per la strage della piazza del mercato di Locri porta alla sbarra addirittura il boss di San Luca Antonio Nirta, e poi ancora Antonio Macrì, Tommaso Scaduto e Antonio Di Cristina, quest’ultimi due di origini siciliane e considerati dall’accusa gli esecutori materiali dell’agguato. Ma non ci sono prove evidenti per condannarli. Vengono tutti assolti e il dramma di quel 23 giugno 1967 resterà per sempre una storia senza colpevoli. Con l’ennesima vittima innocente di ‘ndrangheta, Carmelo Siciliano, a cui nessuno darà mai giustizia. (f.veltri@corrierecal.it)
(Foto nel riquadro di copertina di Carmelo Siciliano tratta da archivio.unita.news)
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