15 gennaio 1994, è tarda sera ad Acquaro, un piccolo comune del Vibonese, e il giovane Giuseppe Russo non è ancora tornato a casa. È uscito la mattina presto dicendo ai familiari che sarebbe rientrato per mezzogiorno. Poi una telefonata, poco dopo, per posticipare il tutto di tre ore. Nel tardo pomeriggio, però, Teresa, la madre, inizia a preoccuparsi. Giuseppe è ancora fuori, ed è strano, non si è mai comportato così. Ha sempre comunicato i suoi spostamenti e gli eventuali ritardi, come d’altronde aveva fatto in mattinata.
Vengono informati i carabinieri che iniziano le ricerche su tutto il territorio.
A tarda sera la Fiat Panda del ragazzo viene ritrovata ai bordi di una strada. Dentro non c’è nessuno. A terra un segno di frenata e le chiavi ancora nel cruscotto.
Giuseppe Russo, ma tutto lo chiamano Pino, nel 1994 ha appena 22 anni. È figlio di Teresa, mentre Orlando Luzza, un piccolo imprenditore edile, è il suo patrigno. Ha un fratello più piccolo di due anni, Matteo.
Terminate le scuole medie Giuseppe si è subito messo a lavorare, fa il carpentiere. È un bravo ragazzo, preciso, educato, responsabile, non ha mai dato preoccupazione ai suoi familiari, ecco perché gli inquirenti non riescono a spiegarsi il motivo di quella scomparsa improvvisa: il segno di frenata sull’asfalto, la sua auto abbandonata.
Le indagini, col passare delle ore, si fanno più fitte, i carabinieri scandagliano ogni dettaglio nella vita del ragazzo, bravo lavoratore che nel tempo libero frequenta la scuola calcio del suo paese. Vengono ascoltati i genitori, gli amici, ma non emerge nulla di rilevante. Insomma, un vero e proprio mistero.
Due mesi dopo, precisamente il 21 marzo 1994, la macabra scoperta grazie alle rivelazioni di un pentito: il corpo di Pino viene trovato nelle campagne di Dinami, a oltre una decina di chilometri da Acquaro. Giace in una buca, è stato massacrato.
È stato ucciso e chi rivela tutto agli inquirenti ha preso parte all’omicidio. Racconta che la sera stessa del rapimento, il ragazzo è stato portato nei boschi di Dinami, buttato in una fossa scavata in quel momento e bruciato vivo dopo essere stato cosparso di benzina. Durante quel rito raccapricciante, qualcuno ha persino sparato dei colpi di pistola contro il corpo ormai esanime del 22enne. Una testimonianza scioccante, che verrà confermata successivamente da altri due pentiti che hanno preso parte a quell’atto barbaro.
Ma perché Pino, un ragazzo così buono e lontano dalle dinamiche criminali, è stato ucciso in quel modo tanto brutale? Semplice, anche se assurdo: perché aveva osato innamorarsi di Angela, cognata del boss della ‘ndrangheta Antonio Gallace, tra i protagonisti della faida delle Preserre vibonesi. Un amore ricambiato e intenso, giovane, vissuto alla luce del sole, senza poter immaginare che qualcuno potesse vederlo come un affronto alle leggi della cultura mafiosa.
Angela, per chi la controllava, avrebbe dovuto avere un altro destino. Pino era consapevole di non essere gradito alla famiglia della ragazza, era stato persino avvertito con un atto intimidatorio, l’incendio della sua auto, denunciato alla caserma dei carabinieri e archiviato come un cortocircuito del mezzo. Ma il 22enne aveva deciso di non arrendersi, il suo amore per quella ragazza valeva la pena di essere vissuto, anche a costo di pagarne le conseguenze. Forse, però, persino lui non avrebbe mai immaginato di correre un pericolo così grande.
La condanna di Giuseppe Russo avviene in modo semplice, sbrigativo. Secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti, Gallace chiede a Gaetano Albanese, un latitante di una cosca della Piana di Gioia Tauro, di uccidere quel ragazzo. A organizzare il rapimento e l’omicidio è Rocco Franco, il quale si avvale della collaborazione di tre complici, tra cui due giovanissimi, Alessandro Morfei e Angelo Benedetto, che saranno letteralmente svezzati alle logiche ‘ndranghetiste con quell’atto di sangue.
Dopo il rapimento, Pino verrà portato in una campagna di Dinami, picchiato a sangue per poi essere buttato in una buca cosparso di benzina e dato alle fiamme. A sparare contro il povero ragazzo, sarà Angelo Benedetto, all’epoca 17enne. E qui torniamo al punto di partenza, a quel 21 marzo del 1994, giorno in cui gli inquirenti, grazie alle indicazioni fornite da Albanese (arrestato e messo alle strette dalle dichiarazioni di Rocco Franco), arrivano sul luogo del delitto. Franco, infatti, aveva scelto di collaborare con la giustizia, rivelando dettagli cruciali sulla morte di Pino Russo. Oltre ad Albanese, anche Benedetto seguirà la strada della collaborazione. Le sue dichiarazioni, unite a quelle di Franco, aiuteranno le autorità a identificare i colpevoli e a ricostruire tutti i passaggi dell’omicidio. Il processo porterà alle condanne di Gallace all’ergastolo come mandante del delitto, 20 anni di carcere invece per Albanese, Benedetto e Morfei. Assolto dalle accuse Rocco Franco.
Il coraggio di Giuseppe Russo e della sua famiglia ha segnato un punto di rottura con la cultura dell’omertà imposta dalla ‘ndrangheta. Decidendo di costituirsi parte civile nel processo, i familiari del ragazzo si sono esposti a minacce e ritorsioni, ma la loro determinazione non è mai venuta meno. Nel 2018 Teresa, madre di Giuseppe, ha ricevuto una lettera inquietante contenente la foto di suo figlio insieme a proiettili, un chiaro avvertimento. Ma Teresa ha continuato a combattere la paura con la forza della memoria, raccontando la verità.
Lo scorso 14 gennaio, Giuseppe Russo Luzza, vittima innocente della ‘ndrangheta, è stato ricordato con una Santa Messa nella Cappella della Clinica dei Gerani di Vibo Valentia. (f.v.)
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