«In principio fu il chiodo», scandì Matteo Renzi il 22 gennaio scorso: a Palazzo Madama, in replica alla relazione del ministro Salvini sulle cause dei ritardi ferroviari in Italia. Il leader di Italia Viva aggiunse: «Signor ministro, lei ricorda la scena di John Belushi in Blues Brothers, quando continua a urlare: “Non è stata colpa mia, è stato che ho lasciato il tight in lavanderia, ho perso il taxi…”». Da una parafrasi del Vangelo di Giovanni alla citazione di un cult del cinema, Renzi compì un salto di tempo e di spazio per affondare la lama dalla satira, peraltro con gestualità enfatica; discorso a braccio, ancora più efficace sul piano comunicativo.
Ogni giorno la politica, a cominciare dal livello centrale, offre esempi di espressioni, immagini e rimandi di forte impatto emotivo. È il segreto (di Pulcinella) della condivisione sui social. Discorsi, post, video, stories e dichiarazioni di ministri, parlamentari, consiglieri di Regioni e amministratori locali sono accuratamente studiati, anche con rinvii a protagonisti del grande schermo, dei Cartoni, dei bestseller, della tradizione occidentale. Parole, toni, accostamenti, grafiche e contenuti vengono concepiti per trasmettere messaggi semplici, diretti e penetranti, in grado di arrivare a chiunque, soprattutto a chi ha meno strumenti di lettura e comprensione. A quale prezzo, però?
La sintesi estremizzata – addirittura fino all’ovvietà, base della demagogia – è l’altro aspetto ricorrente nelle esternazioni degli eletti. L’avevamo già approfondito in un’intervista con la docente Unical Giuseppina Pellegrino, esperta di nuovi media, la quale aveva avvertito: «Che il logos politico sia scomparso è però il risultato di una lunga stratificazione storico-sociale e di trasformazioni convergenti che hanno riguardato i tre elementi che costituiscono la comunicazione politica, cioè: il sistema dei media, il sistema politico con i politici e poi i cittadini. La comunicazione politica sta all’intersezione fra questi tre mondi».
Silvio Berlusconi fece scuola con la tv: reinventò il linguaggio della politica e lo rese più domestico. Nelle sue uscite pubbliche introdusse l’autobiografia, il monologo, la barzelletta, la comicità, la statistica, il colpo di teatro. E, assieme, d’ufficio, il sorriso, il vittimismo e la celebrazione di sé come eroe e angelo necessario. Con buona pace di Massimo Cacciari. È paradigmatica la scena in cui l’allora big del Pdl, nella puntata di Servizio pubblico del 10 gennaio 2013, pulì con fogli e fazzoletto la sedia occupata da Marco Travaglio. Il Cavaliere ricevette fischi dal pubblico in studio, ma ebbe un séguito enorme fuori da lì. Al punto che, dopo la sua morte, Michele Santoro ne riconobbe l’ingegno, l’audacia e il talento nella televisione. Berlusconi superò con l’effetto scenico le regole, la logica e il valore dell’argomentazione verbale, in barba alla lezione del filosofo Chaïm Perelman sulla «nuova retorica». Con un gesto imprevedibile, spesso di rottura dei codici istituzionali, di esaltazione del senso comune e catalisi del desiderio subconscio, Berlusconi riusciva a indebolire la memoria collettiva, a by-passare le ragioni del proprio interlocutore, a mantenere la ribalta per giorni, mesi, anni.
Chi ha dimenticato la foto delle corna al summit dei ministri degli Esteri dell’Unione europea? Era il febbraio 2002, il Silvio nazionale aveva già mandato all’aria la Bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema, dall’eloquio raffinato ma rigidamente chiuso nei formalismi, nelle posture e negli stigmi della Prima Repubblica; a tratti barocco, perfino stucchevole agli occhi di un pubblico sempre più educato a depensare dalla tv italiana di fine Novecento: dello svacco, dell’erotismo serale e serioso, dei premi, del successo immediato, degli scandaletti distrattivi e, come aveva anticipato Gaber, dei «deamicisiani e astuti». D’Alema era ormai fuori moda: poco mediatico e non più adatto a bucare lo schermo. Striscia la notizia l’aveva colto e accentuato nel ’96 con la “Fu fu dance”, una divertente canzonatura del politico, alias «Baffetto di ferro» per l’indole comunista, copyright di Giampaolo Pansa. Anche Achille Occhetto aveva una comunicazione rétro, già immortalata dall’imitazione di Oreste Lionello, che ne aveva diffuso il retorico «nego, nel modo più assoluto»; atteso che, come sanno i logici e le casalinghe di Voghera o Simeri Crichi, un’affermazione è vera oppure falsa, senza mezzi termini.
Dopo le dimissioni, l’8 novembre 2011, di Berlusconi dalla carica di presidente del Consiglio, Beppe Grillo – che con il primo V-Day dell’8 settembre 2007 aveva acceso le speranze di scontenti e delusi d’ogni parte – invase gli spazi del web e della tv con una comunicazione fondata sulla piazza reale e virtuale come luoghi di protesta e ribellione. Talvolta il comico riprese piglio e movenze di Mussolini, più o meno ironicamente. Nel frattempo, rilanciò temi progressisti: l’ambientalismo e le rivendicazioni legalitarie di movimenti vicini alla figura di Peppino Impastato, nel ’78 candidato consigliere comunale di Cinisi con Democrazia proletaria (Palermo). Così, Grillo conquistò le simpatie elettorali di una destra sociale orfana di Giorgio Almirante e di una sinistra sempre più lontana dai “colonnelli” del Pd, che si erano opposti al No, sospinto invece dalla Fiom, al referendum di Mirafiori del 12 gennaio 2011. E che, nonostante la segreteria in mano all’iconico Pierluigi Bersani, avevano perduto sguardo, tempo e presa sociale. Durante il governo trasversale di Letta “junior”, quello di centro-sinistra-destra di Renzi e l’esecutivo Gentiloni “salva-Parlamento”, Grillo imperversò a fasi alterne sino alle Politiche del 2018: nel web, nei tg e negli spazi urbani, con piazze tracimanti a ridosso del voto del 4 marzo di quell’anno. Il resto è storia recente: dal patto (?) di Grillo con il «grillino» Mario Draghi sulla transizione ecologica, sino al sovranismo verbale di Salvini e Meloni, due comunicatori di punta sulla linea di Berlusconi, dello stesso Beppe e di Renzi. Che cosa ne è, nell’era della comunicazione universale, del discorso pubblico? In questo ambito non esiste differenziazione regionale, perché da Nord a Sud – e viceversa – l’analisi e l’indicazione di una prospettiva sono molto rare, anzi bandite, reiette. Sostituite dallo scontro di voci fine a se stesso, comunque sganciato dal confronto di idee, programmi e visioni differenti. Inoltre, divenuto dominante e contagioso, l’uso improprio di parole offensive serve a coprire un grande vuoto culturale e politico, purtroppo crescente e largamente ignorato. Oggi molti politici reali e virtuali intervengono a sproposito su questioni che non conoscono a fondo. L’importante è presenziare, apparire, essere visti a prescindere dalle posizioni su priorità e necessità, dalle proposte su bisogni e obiettivi comuni. Dal cibo al paesaggio; dal tennis alle missioni spaziali; dalla geopolitica alla strategia militare; dalla sanità alla giustizia; dal diritto costituzionale al diritto internazionale; dal calcio alla musica e dal profano al sacro, si assiste a una profluvie di commenti estemporanei e superficiali, a sfondo politico, nel mare magnum della comunicazione. A sentenze senza processo, a conclusioni senza premesse, dati, linearità e riflessione. Oppure a sillogismi del tipo l’uomo è bipede, lo scimpanzé pure, dunque l’uomo è uno scimpanzé. L’istinto di sopraffazione e il narcisismo galoppanti hanno sepolto la ragione e la ragionevolezza, la coscienza, la responsabilità, il rispetto dell’altro. E, nonostante i progetti e le buone intenzioni delle scuole, la competizione prevale sull’inclusione e l’egoismo sulla condivisione. Di contro, viene in mente la straordinaria testimonianza di umiltà del gran maestro Park Young Ghil, 10° Dan nel taekwondo, che, nonostante i suoi sacrifici e meriti, aveva accettato di retrocedere dal 5° al 4° su disposizione dal generale Choi Hong-hi, padre di questa disciplina. “Annuncite”, presenzialismo a ogni costo, contenuti illogici o banali, ricerca spregiudicata del consenso e lesioni della reputazione dell’avversario sono alcune delle patologie del discorso, del costume politico contemporaneo.
L’intellettuale francese Paul Valéry disse: «Quando non si può attaccare il ragionamento, si attacca il ragionatore». Ora l’Intelligenza artificiale elabora concetti sulla base di algoritmi che escludono l’insulto e la violazione della dignità della persona. Magari sarà di esempio per l’intelligenza umana, se quest’ultima tornerà a collocarsi in una dimensione collettiva, a riconoscersi come autonoma ma al servizio della comunità. (redazione@corrierecal.it)
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