Skip to main content

Ultimo aggiornamento alle 22:51
Corriere della Calabria - Home

I nostri canali


Si legge in: 13 minuti
Cambia colore:
 

il ricordo

Vent’anni dall’abbandono di Cavallerizzo. Per non dimenticare, per guardare avanti

«Che possa essere recuperata la memoria. Questa storia riguarda tutta la Calabria, forse, tutto il Mondo»

Pubblicato il: 07/03/2025 – 9:53
di Vito Teti
00:00
00:00
Ascolta la versione audio dell'articolo
Vent’anni dall’abbandono di Cavallerizzo. Per non dimenticare, per guardare avanti

Sono passati 20 anni dall’abbandono di Cavallerizzo. In questi 20 anni ho seguito, osservato, descritto, come antropologo, come abitante di questa terra, con vicinanza emotiva e affettiva e con grande partecipazione, le vicende di Cavallerizzo, dell’esilio della sua gente, del dolore e della fatica di tutti, della difficile “ricostruzione” del nuovo abitato. Venerdì 7 marzo, per iniziativa dell’Amministrazione comunale, della chiesa, della comunità, verrà celebrata una messa nella chiesa dell’antico abitato e, nel pomeriggio, un incontro di ricordo e di riflessione nella nuova Cavallerizzo. Per ricordare la drammatica notte di 20 anni fa, riporto alcuni brani tratti dal mio libro “Il risveglio del drago. Cavallerizzo: un paese mondo, tra abbandono e ritorno“, Donzelli, 2024. A tutta la gente di Cavallerizzo, dovunque essa abiti, la mia fraterna vicinanza. Che questo drammatico avvenimento possa essere utile per rigenerare i luoghi in spopolamento dell’intero Appennino. Che possa essere recuperata la memoria, quel che resta vivo dell’antica Cavallerizzo, e che il nuovo abitato possa e sappia guardare al futuro, in un periodo di grande difficoltà per i paese, con cura, attenzione, progetti di rigenerazione, senza dimenticare quelli che ancora sono “spersi” e “sparsi”. Questa storia riguarda tutta la Calabria, forse, tutto il Mondo.

IL RISVEGLIO DEL DRAGO
Pioveva, come pioveva, san Giorgio mio, quella notte a Cavallerizzo; come urlavano i burroni, nel buio, tra il 6 e il 7 marzo 2005. Né gli adulti né gli anziani ricordavano una pioggia come questa che, ora fitta e penetrante, ora lieve e insistente, durava da giorni e non accennava a cedere. L’acqua dal cielo metteva paura perché incontrava e si mescolava a quella che usciva dalla terra, che inghiottiva il cemento, che penetrava nelle case e che non faceva sperare nulla di buono per un paese che da anni, da secoli, a quanto si diceva, rischiava di rovinare a valle. Cavallerizzo, frazione del comune di Cerzeto, piccola comunità calabro-albanese in quel momento di circa trecento persone, aveva imparato a convivere con la frana della collina su cui poggia almeno dal XV secolo. Con cura, con attenzione e con l’aiuto miracoloso di san Giorgio, che tiene a bada il drago che, a sua volta, minaccia e insieme avverte la comunità della sua stabilità precaria. Non sono una novità, in Calabria, l’urlo del torrente, lo scroscio improvviso delle acque, il rumore delle pietre che scendono dalle montagne e trascinano tutto a valle. Interi paesi sono stati inghiottiti, spostati, divorati dalla forza delle acque in una terra mobile e ballerina, che ha reso inquieti, precari, in fuga anche i suoi abitanti. L’urlo del torrente, con le parole di Alvaro, o il «ringhio del drago» – Rrëkimi i Dragut – come dicono gli arbëreshë di Calabria, fa parte della memoria sotterranea delle popolazioni. Il ringhio del drago diventava più forte quella notte e sembrava capace, forse in un momento in cui san Giorgio si era assentato o magari era distratto, di erompere dalla terra e divorare ciò che si fosse parato sulla sua strada.A dire il vero, già da gennaio la situazione aveva iniziato a destare serie preoccupazioni e un gruppo di giovani si stava dando da fare per allertare e informare la popolazione: il 5 marzo avevano invitato a un incontro pubblico un geologo del Cnr, Vincenzo Rizzo, che da tempo effettuava ricerche sul paese. Le sue parole di allarme avevano contribuito ad aumentare la tensione e la preoccupazione. Il giorno dopo, domenica 6 marzo, di buon mattino Vincenzo Rizzo si ripresenta premuroso e preoccupato. Ha portato con sé un collaboratore e insieme hanno montato degli strumenti in alcune strade diCavallerizzo, di cui si devono registrare le misure a intervalli regolari… Alcune donne interrogano la montagna – il colle diSant’Elia, santo d’acqua e di sole – e le sue nuvole, guardando l’orizzonte,verso la piana di Sibari e lo Ionio. Il tam tam delle telefonate e delle e-mail, che raggiunge anche gli emigrati in tutto il mondo, non lascia presagire niente di buono. I giovani dell’associazione, durante i loro inquieti andirivieni, hanno come punti di riferimento il bar Il Riccio, con annessi tabacchi, della famiglia di Lucio Tudda, che lavora in Comune, e la sede della parrocchia, da dove don Antonio Fasano dà consigli per telefono. Tutti parlano con apprensione, presentendo il peggio, senza tuttavia riuscire a immaginare che sarebbe potuto accadere davvero.Domenica pomeriggio, Graziano e gli altri giovani si ritrovano e attendono, senza sapere bene cosa, al bar di Lucio. …Un’ora dopo Graziano sente suonare con insistenza alla porta, qualcuno chiama, urlando da fuori: «Andiamo via, andiamo via perché il paese è partito». È la voce di Domenico, lo zio di Graziano e Patrizio. Se quella di Cavallerizzo appare essere, in larga misura, la «cronaca di una morte annunciata», da un romanzo alla Marquez sembrerebbe uscita anche la figura di Domenico Golemme. Conosciuto da tutti in paese come Burithi, Burì-u in arbërisht, in lingua albanese… è la talpa, il suriciorvo, «topo orbo», dei calabresi. Il suo soprannome richiamala capacità di scomparire e apparire, di percepire il pericolo anche nell’oscurità.Domenico aveva cominciato ad accorgersi di lenti spostamenti del terreno. Pioveva, e lui andava a controllare la zona dove attendeva, quasi in agguato, la frana. Continuava a piovere e faceva freddo. Qualcuno gli aveva riferito di brutti sogni. Due notti prima del crollo Domenico aveva notato che il terreno in prossimità delle case si era abbassato di circa 2 centimetri. Insieme ai ragazzi misurava alla buona, usando un metro o un pezzo di legno. Il pomeriggio del 6 marzo, è insieme ai giovani che si aggirano per le strade, sostano davanti alla chiesa, vegliano il paese agonizzante. Dopo averli salutati, sistema i tubi dell’acqua e torna a casa a riposare attorno alle sei. Sa che non riuscirà a chiudere occhio, ma almeno si potrà riposare in previsione della veglia notturna. Buttato sul letto, pensa al pericolo che corrono la sua casa, il paese, ma anche alla sua situazione personale, al quarto figlio, di appena dodici anni, malato, che si trova con la madre al Nord, in Piemonte, per curarsi. Il vento continua a soffiare, urlando e battendo sui tetti e sui muri. La pioggia esplode in scrosci come non ne udiva da tempo. Domenico decide di uscire nel buio della notte. Nonostante l’oscurità, il suriciorvo si rende subito conto che la situazione si è aggravata. Misura con l’apparecchio che gli avevano dato: la strada si è aperta ulteriormente. Osservale crepe mentre il vento urla forte alle sue spalle e la terra gli trema sotto i piedi. Si ferma là dove la fessura del terreno è più evidente. Le sue due case, peraltro vuote, costruite per i figli, sono lì, quasi appese, le più pericolanti. In pochi attimi rivive una vita di sacrifici, sul punto di essere annullata, privata di senso. Vede la terra abbassarsi lentamente e ha un colpo, gli pare un incubo. Ma poi misura con il suo metro: non c’è tempo da perdere. La pioggia ora cade più piano. Corre Domenico, sente che il drago è ormai sveglio. Bisogna fuggire. Poi, precipitandosi nella gjitonia pericolante, comincia a bussare, a suonare a campanelli e citofoni. «Correte, fuggite, il paese crolla!». Impossibile svegliare e avvertire tutti da solo. Scende di corsa verso la casa del fratello, dove vede la luce accesa. Suona, bussa, urla e sono ormai le due o le tre del mattino. Graziano apre la porta e vede lo zio sconvolto, fa in tempo a sentirgli dire: «Il paese è partito. Correte a suonare le campane, andate ad avvisare la gente»… Era la fine del mondo e zio Domenico invitava a dare l’allarme, a salvare la gente, visto che case e cose, alberi e strade stavano per essere inghiottiti dalla terra. La gente esce in strada, così com’è vestita. Si incontra nelle gjitonie e urla: «Fuggite, fuggite… il paese crolla». Ciò che sta succedendo non può essere equivocato. Di certo, molte persone saranno salvate dall’allarme dato da Golemme e dagli altri, bussando quella notte a tutte le porte. Mentre il ringhio del drago si sente più forte – qualcuno, in seguito, ricorda di avere udito un grande boato, il rumore degli alberi inghiottiti dalla terra – non c’è san Giorgio a cavallo, ma c’è la talpa e tante altre piccole talpe che si mettono in moto, correndo da tutte le parti. Sono loro i messaggeri di san Giorgio. Presto, bisogna scappare prima dell’arrivo del drago, prima che apra le sue enormi fauci e divori le persone, oltre agli alberi e alle case. «Sono Domenico Golemme – è una voce che nel buio sembra venire dall’alto della montagna –. Fuggite, avvisate tutti, il paese se ne va, sciolla». Così anche Graziano, suo fratello Patrizio, il padre Pietro Felice si tuffano nel cuore della notte. Escono di corsa, seguiti dagli amici con cui stavano vegliando il paese, e risalgono lungo la strada, senza pensare a nulla. Quello che vedono non lo dimenticheranno. Qualcuno inizia a chiamare col cellulare i primi numeri che gli vengono in mente, per svegliare chi conosce. Le talpe si moltiplicano, corrono, piccole talpe che corrono più del cavallo di san Giorgio stesso, vedono nel buio, bussano, chiamano: «Fuggite, fuggite… il paese crolla». Graziano si dirige veloce verso la piazza, verso la chiesa e, con in testa le parole dello zio, pensa di suonare le campane. Bussa con forza alla porta della signora che conserva le chiavi della chiesa, tira calci, pugni, manate fino a quando la porta non si apre. Corre ad aprire la chiesa, accende il meccanismo che fa suonare le campane. Nella notte lo scampanio riesce a sovrastare il rumore dell’acqua, l’ululato del vento, gli scricchiolii delle prime case che crollano, il ringhio del drago. Graziano esce fuori, non sa bene cosa fare, rimane fermo per un po’, incerto se rientrare per far tacere le campane o correre lasciando aperta la chiesa. Sente altri richiami, avvertimenti grida: «fuggite, fuggite», «correte, correte» è presente in fonti scritte e memorie orali che si riferiscono ad altri crolli, frane, terremoti che hanno interessato la Calabria e altre zone del Sud nei secoli passati. Immobile e stordito, gli viene da piangere, ma è solo un attimo. Poi rientra in chiesa e ferma le campane, come se il loro suono fosse troppo doloroso. Ormai l’allarme è dato. Si sentono motori di macchine accesi, tra voci e grida. Graziano corre a prendere la madre rimasta a casa. La chiama, dicendole di far presto, di uscire di corsa, e intanto afferra il portatile, la videocamera ed esce, va sulla strada e mentre aspetta l’arrivo degli altri comincia a filmare la prima casa che crolla, quella di fronte al bar di Lucio. Mentre filma, documentando l’agonia del paese che muore, sente di nuovo le campane. Capisce di aver lasciato la porta della chiesa aperta e qualcun altro dev’essere entrato ad azionarle. Le persone continuano a chiamare i vicini, a telefonare. In quella notte ognuno pensa all’altro. Si dimenticano le antiche inimicizie. I vicini dei Figlia, con cui da tempo sono in lite per questioni banali, bussano alla loro porta. Suonano, non sentono risposta. Non sanno che la sera prima erano andati a dormire a Cerzeto e cominciano a preoccuparsi. Poi immaginano che dicerto saranno già stati avvisati, forse saranno in salvo, sperano. «Fuggite, fuggite… il paese crolla», si sente nelle strade. «Il paese scompare», si dicono le persone al telefono, «il paese se ne va», ripetono con le parole di Domenico. Qualcuno non ha avuto bisogno di sentire le campane o l’insistente suono del campanello di casa per accorgersi di quanto stava accadendo. Carmelina Bruno, nata nel 1952 a Cavallerizzo, così ricorda: «Quella notte guardavo dalla mia finestra i tetti intorno, e vedevo in fondo il tetto di quella casa gialla che ora è scesa, la casa di Tudda. All’improvviso il mio gatto si è messo a miagolare fortissimo, forse avvertiva il pericolo, così io ho aperto la finestra e l’ho fatto uscire fuori. Quando sono tornata alla finestra il tetto di quella casa non lo vedevo più. Ho preso il telefono e ho cominciato a telefonare a tutte le persone che avevano dei bambini, ho detto loro di scappare; dopo poco ho sentito le campane suonare». La madre di Carmelina era a letto, malata, non poteva muoversi: «Sono andata da lei, non sapevo come fare a dirle che forse il paese stava crollando. L’ho alzata dal letto e le ho fatto il caffè, poco dopo è arrivata mia cugina, urlava che dovevamo andare via. Io non volevo lasciare la casa, le ho detto che se la casa doveva crollare io volevo morire insieme a mia madre, ma i miei cugini insistevano dicendo che sarebbero rimasti anche loro. Ho visto la paura nei loro occhi e mi sono convinta, ho messo mia madre su una sedia da ufficio, perché non l’ho mai voluta sedere sulla sedia a rotelle, io la odio quella sedia,ho coperto mamma per bene e siamo andati via, ma io avrei voluto rimanere là, sarei ancora lì adesso, perché la mia casa è rimasta in piedi, sarei vissuta con la paura, ma in casa mia…». In seguito, la madre di Carmelina, accudita amorevolmente dalla figlia, sarebbe morta nel suo esilio a Cerzeto, così lontano e così vicino al suo paese…Verso le sei del mattino Lucio Tudda sente suonare il campanello di casa. È sua sorella, che grida: «Ha suonato al citofono il signor Domenico Golemme, svegliatevi, il paese sta partendo». Prosegue il racconto di Lucio: «In pochi secondi mi sono vestito, ho detto a Maria, mia moglie, fai alzare i bambini, vestitevi, ed io sono andato fuori casa a verificare cosa stava succedendo. Davanti a me, una scena che non dimenticherò mai in vita mia: la casa di fronte cadeva a pezzi sgretolandosi un pezzo per volta, la strada sembrava una gobba di cammello, la casa diPietro non era più al suo posto, era scesa di almeno dieci metri». D’improvviso, Lucio si rende conto che il luogo che ha amato per più di quarant’anni non è più suo, se n’è andato. «Chiamai immediatamente i carabinieri, il tecnico comunale, e corsi a svegliare i vicini; andai dentro casa e con una freddezza impressionante caricai la macchina delle cose più importanti, spostai alcuni oggetti verso il lato monte, per recuperarli più facilmente in caso di crollo della casa. In quei momenti non c’era il tempo per lasciarsi andare allo sconforto, all’amore e all’attaccamento per quel luogo che mi ha visto nascere, crescere […]. L’unica cosa che si poteva fare era affrettarsi per portare in salvo tutto ciò che era possibile». La fuga collettiva, alle prime ore dell’alba, è caotica. Al grido di«Fuggite, fuggite… il paese crolla», le persone sbagliano anche la direzione, racconta ancora Lucio Tudda. A bordo delle auto, si sente come uno scricchiolio, è il rumore dei muri che vengono inghiottiti. Invece di fuggire dalla parte di Mongrassano, fuggono incontro alla frana, passano lungo la strada che di lì a poco scomparirà, divelta e spaccata in mille pezzi. … Quella mattina [il 7 marzo, il giorno successivo alla frana] è venuto Tonino, un carabiniere, e mi ha detto di salire in macchina; gli ho chiesto: “dove andiamo?” e mi ha risposto: “a Cerzeto”. Poi invece di andare per la strada principale è andato verso la parte alta del paese. Io continuavo a non capire, ho chiesto perché si fosse diretto da quella parte; a quel punto mi ha detto che parte della provinciale era già scesa. Arrivati a Cerzeto ho visto una scena che mi ha fatto rabbrividire: tante persone di Cavallerizzo che guardavano verso il paese e gridavano…».

Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato

Argomenti
Categorie collegate

x

x