Eminenza o don Mimmo, come preferisce?
«Preferisco “don Mimmo”. È il nome con cui mi hanno sempre chiamato le persone che ho incontrato nelle strade della mia vita. “Eminenza” è un titolo il “don” invece no, per me indica un legame che nasce dal servizio, un appellativo familiare. È il nome del pastore che cammina con il suo popolo, e io, con tutti i miei limiti, è lì voglio stare: tra la gente, tra le persone, non sopra o avanti a loro».
Nel suo percorso di fede e sacerdozio aveva mai pensato di dover partecipare a un conclave?
«Mai. Neanche di diventare vescovo. Ho sempre cercato di rimanere fedele alla strada, non alla meta. E se una meta ho avuto non è mai stata altra da quella di aiutare e servire coloro che sono più feriti dalla vita. Partecipare a un conclave è una grande responsabilità, che vivo però con la serenità di sapere che posso contare su tanti fratelli, con cui sono chiamato a cercare il volto di Dio, e discernere la sua volontà sulla Chiesa in questo tempo».
A bordo della Mare Jonio disse: “I salvati sono nomi, non numeri”. I salvati continueranno ad avere dignità di nomi?
«Devono. Altrimenti abbiamo perso non solo il Vangelo ma anche l’umanità. Finché anche solo uno di loro sarà chiamato “migrante” e non “fratello”, “clandestino” e non “persona”, non avremo finito il nostro compito. Il nome è identità, è storia, è promessa. Le statistiche sono ragionamenti. Utili, per carità, ma incapaci di trasmettere i drammi delle persone. E noi siamo qui a salvare le persone, non le idee o i ragionamenti».
Alla morte di Emanuele Tufano e Santo Romano disse: “Ogni volta che un giovane viene ucciso, la città perde una parte del suo futuro. È tempo di un cambio di passo”. È iniziato?
«Sta iniziando. Lo vedo negli occhi di tanti ragazzi che non vogliono più eroi di cartone ma guide vere. Lo vedo in chi si alza la mattina per costruire futuro invece che raccontare solo ferite. Ma serve che tutti – istituzioni, scuola, Chiesa, famiglie – ci mettiamo in cammino. Non c’è salvezza individuale. O ci si salva insieme, o non ci si salva. Il Patto Educativo che abbiamo lanciato come Chiesa di Napoli, un cammino lungo, forse un processo che non si compirà mai del tutto, è un tentativo di far questo. E poi ci sono iniziative importanti rivolte ai giovani che la nostra Diocesi sta mettendo in essere, come ad esempio quelle del Museo Diocesano Diffuso, una realtà nata per offrire lavoro e riscatto a diversi giovani, utilizzando l’immenso patrimonio artistico e culturale della nostra Chiesa».
Cardinale di strada. Come è nato questo cammino col Popolo di Dio?
«È nato nelle strade della mia Calabria, tra le mani dei contadini, le lacrime di chi non aveva voce e la disperazione delle famiglie che vedevano i loro ragazzi perdersi nelle maglie di morte della tossicodipendenza. La strada è stata una vera e propria scuola di spiritualità. Lì ho imparato che Dio parla nelle pieghe della vita. E da allora non l’ho più lasciata. La strada non ti tradisce mai: ti restituisce sempre l’essenziale. Ma attenzione agli slogan. Non li amo molto. Non esistono i preti di strada. Se sei prete e lo sei fino in fondo sei sulla strada. Qualsiasi sia il tuo incarico. E questo vale anche quando si diventa vescovi o cardinali».
La religiosità di Napoli ha una sua originalità?
«Napoli è un’anima che prega anche quando non se ne accorge. Ha una fede carnale, viscerale, che canta, grida, piange, danza. È una religiosità che non si accontenta di idee: vuole toccare, baciare, portare a casa. È una fede che sa convivere con le contraddizioni, ma che cerca Dio con fame vera. E Dio, a Napoli, si lascia trovare nei luoghi più impensati. Per questo penso che sia una città anche molto mistica. Non a caso è stata terra di santi, di discepoli innamorati, così innamorati da evangelizzare anche attraverso il canto dialettale e la musica, come ha fatto S. Alfonso».
Un cardinale calabrese al conclave: che significato ha per la Calabria?
«Partecipare a un conclave non è un onore, ma una responsabilità. Non è il tempo dei riflettori o degli applausi, ma del silenzio e del discernimento. La Cappella Sistina non deve essere raggiunta da campanilismi o tifoserie, ma solo dalla preghiera della Chiesa intera, per aiutare il Conclave nella ricerca della volontà di Dio, ascoltando lo Spirito, lasciandosi ispirare nel trovare un cuore di padre capace di guidare il Popolo di Dio secondo la volontà del Signore. E se questo è vero, allora anche la mia terra, la mia Calabria, è chiamata in questo tempo ad intensificare ancor di più la sua preghiera per la Chiesa. Ma al contempo a discernere con coraggio la volontà di Dio su se stessa, sulla sua gente, affinché il Vangelo continui ad essere annunciato tra le sue strade, riscattando gli ultimi, restituendo dignità e diritti a tutti». (redazione@corrierecal.it)
Nella foto Papa Francesco e Mimmo Battaglia il 16 febbraio 2024
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