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il processo

Omicidio Gioffrè, Mirabelli in aula: «Non volevo morire, ho reagito per salvarmi»

Davanti alla Corte d’Assise di Cosenza, l’imputata ha raccontato mesi di minacce e controllo da parte della vittima. «Mi sono difesa, non ho avuto scelta»

Pubblicato il: 06/06/2025 – 14:19
di Francesco Veltri
Omicidio Gioffrè, Mirabelli in aula: «Non volevo morire, ho reagito per salvarmi»

COSENZA Nuova e intensa udienza oggi in Corte d’Assise a Cosenza per il processo a carico di Tiziana Mirabelli, accusata dell’omicidio di Rocco Gioffrè, 75 anni, avvenuto il 14 febbraio 2023 nello stabile popolare di via Monte Grappa. L’imputata, difesa dall’avvocato Cristian Cristiano, ha confessato il delitto ma ha sempre sostenuto di aver agito per legittima difesa. Le parti civili, rappresentate dall’avvocato Francesco Gelsomino, sono i figli della vittima: Francesca, Pasquale e Giovanna Gioffrè. Il processo è presieduto dalla giudice Paola Lucente, pubblico ministero è Bianca Maria Battini. Oggi l’intera udienza è stata dedicata proprio all’imputata che si è sottoposta alle domande del pm, del suo legale e della presidente della Corte.

Una relazione di vicinato sfociata in tragedia

Nella sua deposizione, Tiziana Mirabelli ha ripercorso la complessa e contraddittoria relazione con la vittima, parlando di un rapporto di vicinato che nel tempo era divenuto opprimente. «Quando il figlio Aldo cadde dal balcone nel 2019, fui io ad accompagnarlo in ospedale e a seguirlo nella riabilitazione. Nascondevo alla moglie di Rocco, gravemente malata, che il figlio era in rianimazione per non farla stare male. Lei per me era una seconda madre».
Nel tempo, secondo la donna, Gioffrè avrebbe travisato la sua vicinanza alla famiglia: «Pensava che io stessi lì per lui. Diceva che ero innamorata. Ma era solo amicizia». Dopo la morte della moglie nel 2022, i rapporti sarebbero peggiorati: «Mi chiedeva di allontanare i figli, denunciava la figlia Francesca, voleva toglierle i bambini. Non era la famiglia del “Mulino Bianco” di cui si raccontava».

Le minacce, i messaggi e la paura

Mirabelli ha descritto un crescendo di tensioni, minacce e paura:
«Mi scriveva che avrebbe fatto una strage, diceva di avere armi. Ogni giorno sparava dal balcone con una pistola. Non ho mai denunciato: avevo paura, abitavamo porta a porta».
Ha poi raccontato che Gioffrè la seguiva ovunque e che spesso bussava alla finestra del balcone. «Non mi faceva dormire. Ad agosto, col caldo, ho dormito coi balconi chiusi per la paura. Cercavo di tenerlo buono, gli rispondevo per evitare il peggio».

Il giorno dell’omicidio

Secondo la ricostruzione di Mirabelli, la mattina del delitto Gioffrè l’aveva invitata a prendere un caffè: «L’ho trovato con la schiuma da barba sul viso. Mi ha detto ancora una volta che lo prendevo in giro. Ero stanca delle sue minacce».
Poco dopo, l’uomo sarebbe arrivato a casa sua: «Stavo rifacendo il letto. Lui mi è arrivato alle spalle e mi ha puntato un coltello alla gola. L’ho deviato d’istinto, mi sono girata e gli ho dato un pugno. Abbiamo lottato. Ho cercato di afferrargli il polso e il coltello è caduto. Mi ha detto che quel giorno non sarebbe finita bene e l’ho colpito».
La ricostruzione si è soffermata anche sulle ferite: due tagli alla mano sinistra, uno al dito e uno alla base del pollice. «Non ricordo dove l’ho colpito – ha detto ancora -. Lui, dopo le coltellate si è accasciato e non l’ho più colpito. Il sangue non l’ho visto nell’immediatezza, ero sconvolta. Il piumone del letto pieno di sangue l’ho messo nella vasca. Poteva essere anche il mio, non ci ho pensato. Ma ovviamente poteva essere anche il sangue di Gioffrè».
«Mi difendevo – ha aggiunto – avevo paura. Non volevo morire».

Contraddizioni e versioni divergenti

Il pubblico ministero ha sottolineato alcune discordanze tra le dichiarazioni rese nel corso del tempo: «In precedenza disse che il coltello cadde dopo la coltellata. Oggi sostiene che cadde prima».
Mirabelli ha risposto: «Oggi sto dicendo la verità. All’epoca ero sconvolta».
È stato mostrato un video della prima dichiarazione dell’imputata, in cui parla di coltellata allo stomaco prima che l’arma cadesse a terra e ai suoi tentativi di tenerlo calmo. Mirabelli ha ribadito: «In quel momento ero disperata».

Il contesto familiare e la dinamica psicologica

Mirabelli ha dichiarato di aver continuato ad avere rapporti amichevoli con Gioffrè solo per paura, ha affermato che l’uomo le offriva denaro per avere rapporti sessuali: «Mi proponeva mille euro al mese per andare a letto con lui quattro volte, ma io gli ho sempre detto di no. Mi controllava, sapeva anche quando avevo il ciclo. Si masturbava sui miei assorbenti». In un passaggio ha aggiunto: «Io gli ho dato 300 euro al mese per smetterla di tormentarmi, ma lui non ha rispettato l’accordo». Secondo l’imputata, l’uomo beveva ogni giorno una bottiglia di whisky.
La presidente Lucente ha chiesto perché non si è mai rivolta alle autorità. «Avevo paura – ha risposto la donna – non mi sarebbero servite le denunce. Perché non ho detto nulla ai miei fratelli? Volevo proteggerli, io da sorella maggiore li aiutavo sempre sia economicamente che moralmente».
A domanda ancora della presidente Lucente: «Quindi, tra denunciare e morire, ha preferito morire?», Mirabelli ha risposto: «Non volevo mettere nei guai la mia famiglia».

Le chat e i messaggi ambigui

Durante l’udienza sono stati letti messaggi scambiati tra l’imputata e la vittima: “Potevamo stare insieme”, “Tu voglia di me non ne hai”? “Volevo un po’ di calore”, scriveva Mirabelli. Che oggi ha spiegato: «Scrivevo così per giocare sul piano psicologico, per tenerlo tranquillo. Non volevo davvero una relazione con lui».
«La figlia di Gioffrè – ha spiegato sempre Mirabelli – mi ha detto che le era arrivato un messaggio da parte del padre quando lui era già morto. Ma io non avevo il cellulare, non l’ho mandato io».
Mirabelli si è costituita cinque giorni dopo il delitto.
«Nei giorni precedenti – ha dichiarato oggi – ho dormito sulla scale del palazzo. Avevo paura del cadavere in casa. Dopo il caffè, prima di andare via dal suo appartamento quella mattina, ho ripreso un bracciale che mio figlio mi aveva regalato: Gioffrè me lo prendeva spesso per gelosia, pensava fosse un regalo di chissà chi».
Ha detto di aver pulito il coltello e poi di averlo lanciato a terra in casa, ma non sa dove sia finito (il coltello non è stato trovato): «Dopo quello che è successo ho buttato via degli stracci sporchi, dentro poteva esserci anche il coltello, non lo so». Ha anche rivelato di aver fatto un prelievo dalla postepay cointestata con la madre il giorno stesso dell’omicidio: «Facevo due volte all’anno dei prelievi di piccole somme, 600 euro, per far tenere basso il saldo giacenza per l’Isee di mia madre». Un prelievo è stato effettuato anche dopo la morte di Gioffrè. «Questi movimenti – ha detto l’imputata – li facevo da quando mia madre era in pensione. Prelevavo anche altri 140 euro mensili per il reddito di cittadinanza». «Mia madre – ha continuato – ancora oggi non lo sa che ho ucciso un uomo. Non esce, sta sempre in casa, non legge i giornali».

Abusi, controllo e isolamento

«Gioffrè aveva messo una microspia in casa mia – ha rivelato ancora Mirabelli –. Diceva che se non andavo a casa sua, mi avrebbe attaccato la corrente. Aveva un’ascia sotto il cuscino, in casa coltelli, scuri. Mi ha anche regalato dei coltelli». E ancora: «Mi diceva che dovevo far ricoverare il figlio perché voleva restare da solo. Dopo la morte della moglie, era diventato ingestibile. Lui voleva eliminare la famiglia, voleva che si facesse un Tso al figlio, e mi accusava di non averlo aiutato, di non aver mantenuto la promessa». L’imputata in chiusura ha confermato che già in quel periodo aveva una relazione con una donna.

Prossime udienze e fine dibattimento

Il processo si avvia verso la conclusione. Le prossime udienze del dibattimento sono state fissate per il 25 giugno alle ore 12 e il 16 luglio alle ore 9. In quelle date la Corte valuterà le richieste conclusive, prima di emettere una sentenza su una vicenda che ha profondamente scosso la città di Cosenza. (f.veltri@corrierecal.it)

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