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IL PROCESSO

‘Ndrangheta, l’«estorsione silente» sui lavori al complesso parrocchiale di Pizzo

Rese note le motivazioni della Cassazione sul processo abbreviato “Petrolmafie”. «Emersa la spartizione dei subappalti tra imprese ritenute vicine a plurime consorterie»

Pubblicato il: 17/06/2025 – 10:25
di Giorgio Curcio
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‘Ndrangheta, l’«estorsione silente» sui lavori al complesso parrocchiale di Pizzo

VIBO VALENTIA Le mani delle cosche vibonesi sulla realizzazione del nuovo complesso parrocchiale denominato “Resurrezione di Gesù”, a Pizzo, e commissionati dalla Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea alla ditta Cooper.Po.Ro Edile. È il primo aspetto sul quale si sono concentrati i giudici della Corte di Cassazione nelle motivazioni del processo “Petrolmafie – Dedalo” celebrato con rito abbreviato.

Le motivazioni

Come riportato nelle 78 pagine, infatti, i giudici sottolineano come nel corso dell’inchiesta fosse emersa la “necessità” di procedere alla spartizione dei subappalti tra imprese ritenute vicine a plurime consorterie ‘ndranghetiste per i lavori di costruzione. Dalle copiose attività di intercettazione, già richiamate nelle sentenze, era emerso come Giuseppe D’Amico, personaggio della cosca Mancuso e attivo come “raccordo” tra il presunto boss Luigi Mancuso, Pasquale Gallone ed altre cosche quali Bonavota, Anello e Fiarè, condizionava, in funzione della volontà espressa della famiglia Mancuso, «anche l’attività di altri imprenditori espressione di altre consorterie criminali».



Gli interessi per gestire il cantiere

Gli ermellini, poi, sottolineano un altro aspetto. Dalla fine di gennaio 2019 gli inquirenti registravano una serie di incontri tra i fratelli D’Amico, Giuseppe Barbieri e Giuseppe Ruccella finalizzati a definire l’assetto dei contrastanti interessi relativi alla gestione del cantiere. Nel contempo, proseguivano anche i contatti tra i rappresentati della ditta Prestanicola ed i D’Amico mentre parallelamente anche Francescantonio Anello, esponente della omonima cosca, sia rivolgendosi direttamente al Pata, sia inviandogli dei messaggi attraverso l’architetto Tedesco, «faceva pressione affinché la fornitura del calcestruzzo fosse affidata alla ditta di Prestanicola».
Nelle attività finalizzate a trovare un accordo tra le cosche entrava, poi, in gioco anche Pasquale Gallone, incaricato di veicolare la volontà di Luigi Mancuso, il quale interloquiva con Giuseppe D’Amico per la risoluzione delle problematiche da affrontare con la cosca Anello e con la persona offesa Stefano Pata, dipendente della Cooper.Po.Ro. Edile, «al quale venivano imposte le decisioni del Mancuso», si legge nelle motivazioni. Una volta deliberato l’accordo relativo alla spartizione dei lavori, erano state quindi operate le pressioni sul geometra Mario Stefano Pata, dipendente da vari anni della Cooper.Po.Ro. Edile il quale era stato incaricato di mantenere i rapporti con le ditte affidatarie e di individuare le imprese alle quali rivolgersi per l’acquisto dei materiali, affinché si servisse anche delle ditte Prestanicola e Ruccella.

«L’infondatezza dei motivi di ricorso»

Esaminati i fatti e la sentenza della Corte d’Appello, il Collegio ritiene «l’infondatezza dei motivi di ricorso formulati nell’interesse dell’imputato Anello, Barbieri, Gallone e Prestanicola che per le loro interconnessioni appaiono meritevoli di trattazione congiunta. Secondo la Cassazione, infatti, la Corte di appello (in uno con la sentenza di primo grado) ha fornito «una risposta adeguata, tutt’altro che incompleta od apparente, non manifestamente illogica, non contraddittoria e priva di elementi che consentono di rilevare decisivi travisamenti sia del materiale probatorio dichiarativo, sia di quello proveniente dalle conversazioni intercettate».

Anello, Prestanicola e Barbieri

Il Collegio, poi, richiama la sentenza emessa dal gup, evidenziando come la responsabilità penale di Anello, che aveva fatto ingresso nel cantiere di Pata per imporre la propria presenza e per sponsorizzare in prima persona l’impresa di Prestanicola, «emerge dalla numerose conversazioni di assoluto rilievo, la cui eloquenza attesta, senza margine di interpretazioni alternative, una penetrante ingerenza illecita delle consorterie mafiose insistenti sul territorio nei vari settori del mercato e, ancora, che l’attiva partecipazione di Anello (insieme al Prestanicola) al sistema di spartizione emerge inequivocabilmente dai contenuti dei dati intercettivi dai quali risulta che Prestanicola, coadiuvato dall’Anello, pretendeva di ritagliarsi uno spazio e di partecipare alla predeterminata spartizione dei lavori». Per il Collegio, inoltre, «la posizione del Prestanicola è indubbiamente legata a quella dell’Anello» mentre Barbieri è «da ritenersi il referente della cosca di Sant’Onofrio (gruppo Bonavota) e diretto interlocutore degli accordi spartitori: lo stesso ha intrattenuto principalmente rapporti con il D’Amico, sollecitandolo a rivolgersi al Mancuso per assicurarsi la sua partecipazione all’affare, essendo lo sponsor del Ruccella, avendone promosso insistentemente la partecipazione all’esecuzione dell’appalto tramite la fornitura del cemento». Infine, Gallone è colui che «ha veicolato gli ordini di Luigi Mancuso e partecipato direttamente alla risoluzione dei conflitti creatisi tra il gruppo D’Amico-Barbieri da un lato, e Prestanicola-Anello dall’altro, intervenendo per chiarire quali fossero gli ordini da riferire al Pata e agli altri soggetti coinvolti», osserva la Cassazione che ritiene inoltre «non fondate le doglianze difensive relative al fatto che non vi sarebbe stata una concreta coartazione della volontà del Pata nella scelta di a chi affidare i lavori».

«Estorsione in forma silente»

Richiamando ancora la sentenza del gup, gli ermellini sottolineano come «lo scenario che è emerso sia quello di un’estorsione in forma “silente” praticata senza il ricorso ad esplicite forme di minaccia o a violenza». Per il Collegio, dunque, «correttamente i Giudici di merito hanno ritenuto sussistente la fattispecie estorsiva», ricorrendo le condizioni per configurare nel caso in esame una “minaccia silente”. Tutti gli interventi degli imputati costituiscono, nel caso in esame, «specifici tasselli di una attività estorsiva che non può che essere presa in considerazione nel suo complesso ed il fatto che vi siano stati interventi nella vicenda in momenti temporalmente diversi non incide sulla configurabilità del concorso nel reato, così come rientra sempre nell’attività estorsiva la condotta di chi interviene in un’estorsione già in corso di consumazione, rafforzandone o comunque integrandone le modalità realizzative», scrivono i giudici nelle motivazioni. (g.curcio@corrierecal.it)

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