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l’analisi

Cosenza, i due ds nel luogo in cui il calcio si scrive al contrario

Lupo e Roma con lo stesso ruolo, le proposte (concrete) di acquisto rifiutate, la caccia agli sponsor (boicottati dalla tifoseria) e Santapaola. L’estate surreale del club non è finita

Pubblicato il: 02/08/2025 – 11:16
di Francesco Veltri
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Cosenza, i due ds nel luogo in cui il calcio si scrive al contrario

COSENZA C’è qualcosa di teatrale, quasi di cinematografico, in questa lunga estate cosentina. Ma non nel senso buono. Piuttosto un film girato al contrario, con i titoli di coda che passano a metà e gli attori che entrano in scena quando la trama è già collassata. Fino a circa un mese fa, Domenico Roma sembrava aver superato tutti nell’ormai rituale casting estivo di Eugenio Guarascio, una tradizione più radicata di San Francesco di Paola. Il nuovo direttore sportivo sembrava scelto, pronto, sistemato. Ma evidentemente, tra un giro di valzer e una pausa riflessiva, il presidente ha deciso altrimenti.
Così, con un tempismo che in qualunque altra società sarebbe stato motivo di allarme, l’11 luglio arriva la nomina di Fabio Lupo. Il casting si chiude, ma non si capisce con quale copione. Da quel momento in poi, tutto accade in un’atmosfera a metà tra il grottesco e il prevedibile: il tecnico scelto è Buscè, nome vicino al nuovo ds: una conferenza stampa annunciata e poi annullata all’ultimo; il ritiro di Lorica, con dentro una conferenza tragicomica dove si presentano in quattro (Lupo, Buscè, Micheli e il nuovo addetto stampa Folino) e infine, la chiusura del ritiro senza nemmeno un nuovo acquisto ufficiale.
La squadra c’è, è vero. Ma è la stessa di prima. Alcuni hanno richieste, altri dubbi e voglia di scappare. Nessuno, ad oggi, è arrivato. E siamo al 2 agosto. A questo punto, il colpo di teatro: Guarascio richiama proprio Domenico Roma. Ma per rispetto verso Lupo – o forse solo per evitare domande – gli affibbia un titolo di comodo: “responsabile dell’area tecnica”. Dunque, il Cosenza calcio ha ufficialmente due direttori sportivi. Ma chiamarli così non si può. E allora si cambia il nome, non la sostanza. Chi comanda? Chi decide? Chi tratta? Cosa ne pensa Lupo? Nessuno lo sa. Ma va bene così. Almeno finché Guarascio dice che va bene così.

La fantasia della cessione

Ma facciamo un passo indietro in questa nuova settimana di telenovela rossoblù: lunedì scorso, com’è noto, il patron ha concesso un’intervista a un collaboratore esterno del nostro giornale. Di quelle rare, con la voce pacata e, idealmente, lo sguardo da uomo di Stato. Ha detto, testuale, che nessuna offerta concreta per l’acquisizione del club è mai arrivata. Un modo come un altro per dire: se sono ancora qui, è perché nessuno mi ha chiesto di andare. Peccato che già nelle ore successive sia arrivata la smentita, netta, documentata. Alfredo Citrigno, da una parte, e l’avvocato Gigliotti a nome di una cordata umbra, dall’altra, hanno parlato pubblicamente. Entrambi hanno dichiarato di aver avanzato proposte con cifre importanti messe sul tavolo. A questi si aggiungono i soliti nomi più silenziosi – il gruppo Oliva, il fondo arabo – che continuano a orbitare intorno al club senza essere mai stati ufficialmente smentiti.
Insomma: le offerte ci sono state e ci sono. Solo che Guarascio non le vede. E se le vede, fa finta di no. Perché cedere, forse, non è mai stata un’opzione reale per ragioni che appaiono sempre più ambigue e misteriose. Al momento non vende anche perché tra ottobre 2025 e aprile 2026, come dichiarato ieri dallo stesso club, entreranno nelle casse quasi 2 milioni di euro di “paracadute” dalla Lega di Serie B, a cui si aggiungono 2,5 milioni dalla Sampdoria per l’affare Tutino.
In mezzo a tutto questo, il club lancia una campagna per attrarre sponsor. Slogan: “Identità e territorio”. Una trovata che, in un’altra città, sarebbe sembrata ironica. A Cosenza, invece, è semplicemente offensiva. Non a caso, i tifosi più caldi hanno risposto chiedendo di boicottare ogni attività che deciderà di legarsi a questa società. Perché se un club divide, se mina la coesione, se svuota le curve e silenzia la passione, allora non può rappresentare nessun territorio.

Il cognome come capro espiatorio

In chiusura, un nuovo passo indietro obbligatorio va fatto, sempre sulle parole di Guarascio di qualche giorno fa. L’imprenditore lametino, spiegando perché a suo avviso la piazza gli è contro, ha detto che tutto è cominciato nel 2021, quando «ebbe il coraggio»  di allontanare un ragazzo della Primavera: Pietro Santapaola. Nipote di un boss catanese e figlio di un pregiudicato, Pietro non aveva alcun carico penale. Nessun problema comportamentale, nessuna segnalazione. Solo il peso della sua anagrafe. Ma nel calcio, che ha spesso rappresentato una via di salvezza per chi nasce ai margini, quella decisione fu tutto fuorché coraggiosa. Fu una scorciatoia, una condanna preventiva, una rinuncia a ciò che lo sport dovrebbe essere per davvero: riscatto. E oggi, quattro anni dopo, quella scelta sbagliata e contestata, viene riciclata come alibi nobile. Come se bastasse tirare fuori un nome scomodo e anacronistico per far sembrare eroica una gestione sorda, chiusa, divisiva. Ma la realtà è che la tifoseria era contro già prima del 2021. La frattura era lì, ben visibile, scritta sui muri, sugli striscioni, nei volti sfiniti di chi ama realmente i colori rossoblù. Bastava leggere, osservare, ascoltare. E Pietro? Quest’anno ha giocato in Serie D, con l’Akragas. Non ha fatto una gran carriera, forse. Ma ha continuato a giocare. A crederci. A non piegarsi al pregiudizio. Una lezione di dignità. Che a qualcuno, forse, manca da tempo.

L’epilogo (vero)

Il rapporto tra la città e questa proprietà è finito. Non è in crisi. È concluso. Non ci sono margini. Non ci sono compromessi. C’è solo un presidente che finge che tutto possa ricominciare per continuare ad operare come ha sempre fatto da quindici anni a questa parte. Annullando, di fatto, ogni possibilità di rilancio del calcio cosentino. Ma la città ha già chiuso la porta. Il pubblico non c’è più. Resta solo il palco. Con le luci accese e il copione in mano a chi non accetta che lo spettacolo sia finito. E se anche oggi tutto appare assurdo, incoerente, inaccettabile, la colpa, ovviamente, non è sua. È di Santapaola. Per forza. (f.veltri@corrierecal.it)

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