L’omicidio Scopelliti: il 9 agosto 1991 il sacrificio di un servitore dello Stato
Giusto 34 anni fa il magistrato veniva assassinato a Piale di Villa San Giovanni. Sullo sfondo il ruolo di ‘ndrangheta e Cosa Nostra. La profezia di Falcone

REGGIO CALABRIA È la notte tra il 9 e il 10 agosto 1991. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga decide di annullare tutti gli impegni e di recarsi immediatamente in Calabria: a una settantina di chilometri da Reggio, poche ore prima, era stato ucciso un magistrato. Si chiamava Antonino Scopelliti. Non era rimasto vittima di un incidente stradale, come ipotizzato nell’immediato: la Bmw 318 a bordo della quale viaggiava, senza scorta, si presentava crivellata di colpi d’arma da fuoco. Il magistrato era stato ucciso. Ma da chi? Inizia così una ricostruzione dell’agenzia Dire che ricorda l’omicidio del magistrato calabrese avvenuto a Piale di Villa San Giovanni 34 anni fa. La carriera in magistratura di Scopelliti inizia nel 1959, a soli 24 anni, e non si svolgerà mai in Calabria. Prima assume la funzione di Pubblico ministero a Roma, poi a Milano, quindi l’incarico di procuratore generale della Corte d’Appello e, infine, di sostituto procuratore della Corte di Cassazione. Mai prima di allora la ‘ndrangheta aveva ucciso un magistrato nella “sua” terra. L’unico caso era stato quello di Bruno Caccia, assassinato dagli ‘ndranghetisti nel 1983, ma a Torino, dove Caccia stava dirigendo alcune indagini sui traffici della criminalità organizzata in Piemonte. Perché, stavolta, ammazzare un magistrato che non si occupava di ‘ndrangheta? E perché farlo in Calabria? Nella sua lunga carriera, Scopelliti ha rappresentato l’accusa in vari maxi processi. Relativi alle stragi, ad esempio, quella di piazza Fontana e del Rapido 194, ma anche al caso Moro e al sequestro della Achille Lauro. Quando viene ucciso, si stava occupando di mafia: preparava il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese di alcuni tra i mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra.
L’agguato
Era stato quel diniego a scrivere la sua condanna a morte? Negli anni – ricorda ancora l’agenzia Dire – nessuna di queste domande ha trovato una risposta. Antonino Scopelliti nasce il 20 gennaio 1935 a Campo Calabro e, nonostante la sua carriera l’abbia visto sempre impegnato lontano dalla sua regione, amava farvi rientro per le vacanze. Così aveva fatto anche nell’estate del 1991. Il pomeriggio del 9 agosto, dopo aver trascorso la giornata al mare, Scopelliti stava tornando in paese a bordo della sua auto, quando, a Piale, una frazione di Villa San Giovanni, viene intercettato da alcuni sicari, almeno due, sopraggiunti in sella a una moto e appostati lungo la strada. Quando la Bmw di Scopelliti svolta per il rettilineo che immette nell’abitato di Campo Calabro, i killer, armati di fucili calibro 12 caricati a pallettoni, fanno fuoco. Due colpi esplosi in rapida successione centrano la testa del magistrato, uccidendolo all’istante. Il 10 agosto 1991, nella Chiesa Madre di Campo Calabro, si svolgono i funerali del giudice, ai quali partecipa anche il Capo dello Stato. Incontrando i giornalisti prima delle esequie, nella prefettura di Reggio Calabria, Cossiga spiega di aver raggiunto la Calabria per “onorare il magistrato Antonino Scopelliti, caduto per la difesa dei principi della civile convivenza e per la difesa del diritto”, ribadendo che “l’uccisione di un magistrato non è solo, e sarebbe già cosa gravissima, un crimine contro la vita umana, ma anche contro lo Stato”. Ai funerali – sempre l’agenzia Dire lo riferisce – era presente anche Giovanni Falcone, che in quell’occasione confida a uno dei presenti: “Ora il prossimo sarò io”.

I processi e le piste
Diversi – conclude l’agenzia Dire – processi sono stati celebrati, a Reggio Calabria, per fare luce sull’uccisione di Antonino Scopelliti. La prima pista seguita legava l’assassinio del magistrato al maxiprocesso. Alla sbarra, condannati in primo grado tra il 1996 e il 1998, tra gli altri, anche vertici di Cosa Nostra come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. La tesi dell’accusa, suffragata dalle dichiarazioni di diversi pentiti, era quella di un accordo tra mafia calabrese e siciliana: la seconda avrebbe chiesto alla prima di uccidere il giudice in cambio di un intervento per far cessare la guerra di ‘ndrangheta che stava insanguinando la regione. Ma, tra il 1998 e il 2000, tutti gli imputati vengono assolti in appello. Un caso chiuso? Nel 2012 è ancora un collaboratore di giustizia a pronunciarsi sull’assassinio Scopelliti, dichiarando che il magistrato sarebbe stato ammazzato da due calabresi su richiesta di Cosa Nostra. Conferma, di fatto, la tesi sostenuta già nei primi anni Novanta, ma non fa i nomi di killer e mandanti. Nel 2018 una nuova clamorosa svolta: in Sicilia, a Belpasso, nel catanese, viene ritrovata l’arma del delitto. Le indagini vengono riaperte, con nuovi accertamenti disposti anche nel corso degli ultimi mesi dalla Dda reggina.
Gli ultimi sviluppi
Secondo quanto ha riportato l’agenzia Ansa lo scorso 20 maggio, sarebbero 20 gli indagati per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Oltre ai primi 17 ai quali fu notificato l’avviso di garanzia nel 2019 quando la Dda di Reggio Calabria aveva ritrovato il fucile grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, sono indagati adesso anche altri esponenti di primi piano della ‘ndrangheta della provincia reggina Pasquale Condello, Giuseppe De Stefano, Giuseppe Morabito, Luigi Mancuso, Giuseppe Zito ed il boss delle cosche “milanesi” Franco Coco Trovato. I nuovi nomi sono contenuti nel decreto di perquisizione eseguito nelle settimane scorse dalla Squadra mobile a Messina. Tra i nomi indicati nel documento, che anche quello del boss catanese Nitto Santapaola nei confronti del quale, però, “non si può procedere perché già assolto per l’omicidio Scopelliti”. Nell’inchiesta – proseguiva l’Ansa – risultano indagati anche alcuni boss che nel frattempo sono deceduti, Matteo Messina Denaro, Giovanni Tegano e Francesco Romeo. Nel provvedimento, firmato dal procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo e dal sostituto della Dda Sara Parezzan, c’è ancora Matteo Messina Denaro che, stando alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, avrebbe partecipato alla fase esecutiva del delitto che sarebbe stato deciso “nel corso di una riunione svoltasi a Trapani nella primavera del 1991”. Secondo i pm – aggiungeva l’Ansa – “il mandato omicidiario proveniva direttamente da Totò Riina” che ha incaricato Messina Denaro il quale, a sua volta, “riceveva le informazioni operative relative alle abitudini di vita del magistrato da Salvo Lima”, l’europarlamentare della Dc ucciso in un agguato a Palermo il 12 marzo 1992. Il boss di Castelvetrano, infine, stando alla ricostruzione della Procura, avrebbe curato “i contatti con un informatore locale rimasto ignoto che avvisava il gruppo incaricato dell’omicidio in ordine agli spostamenti del magistrato”. (redazione@corrierecal.it)
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